Jean-François Kervégan Che
fare di Carl Schmitt? Ed. Laterza, Bari 2016, pp. 235, € 24,00
La frase che sintetizza
questo saggio è come “pensare con Schmitt contro Schmitt”. La contraddizione
che ne emerge è quella consueta: tra un pensiero tuttora fecondo e in grado di
spiegare – almeno in parte – il nostro presente politico e l’adesione del
giurista di Plettemberg al nazismo che lo rende maledetto al “pensiero unico”.
Contraddizione
particolarmente avvertita in Italia e in Francia.
In Italia il pensatore tedesco
era stato “cancellato” prima della renaissance
avviata dalla pubblicazione nel 1972 a cura di Miglio e Schiera della silloge
dei suoi scritti “Le categorie del politico” seguita nei decenni successivi
dalla traduzione e pubblicazione di (quasi) tutti gli scritti di Schmitt. Di
guisa che nel “coccodrillo” di Maschke pubblicato da Deer Staat dopo la morte di Schmitt, si ascriveva all’Italia il
merito di aver svolto la parte più importante nel recupero del pensiero
schmittiano – spesso ad opera di studiosi marxisti.
Valutazione che l’autore
condivide “Non è azzardato affermare che in Italia, a partire dagli anni
Settanta, sono stati pubblicati alcuni dei migliori contributi alla letteratura
critica su Carl Schmitt”. Kervégan sostiene che “Se esiste un «caso Schmitt» è
proprio perché questo autore, insieme alle sue divagazioni naziste, ha scritto
opere che sono da annoverare tra le più importanti e potenti della teoria
giuridica e politica del XX secolo”. E ciò che rende la sua opera utilizzabile
“in modo perverso” per legittimare l’aggressività nazista è ciò che la fa
spesso interessante e fertile “Non ci sono due Carl Schmitt, il buono e il
cattivo Schmitt, ma c’è uno spirito brillante che si è sforzato, con la stessa
agilità intellettuale, di rilevare le contraddizioni del pensiero
liberal-democratico e di giustificare la politica di Hitler”. E soprattutto la
fecondità e l’attualità di molte intuizioni di Schmitt, spesso in grado di
spiegarne cause e dinamiche.
Tra questi ne ricordiamo
tre.
La prima è la situazione
del mondo dopo il crollo del comunismo.
Scrive Kérvegan “Tra il
1991 e il 2001 si è voluto – e fino a un certo punto si è potuto – credere che
l’umanità vivesse finalmente in un mondo comune, unificato dalle medesime
aspirazioni e scelte fondamentali. L’autore di La fine della storia e l’ultimo uomo, Francis Fukuyama è stato il
corifeo di questa convinzione …. scomparsi i concorrenti (fascismo, comunismo),
non c’è più che un solo paradigma di vita buona: quello offerto dalla
democrazia occidentale (o più esattamente nordamericana)” ma gli attentati
dell’11 settembre hanno posto fine a queste speranze passeggere e ci hanno
messi dinanzi al fatto che la morte di un nemico non comporta la scomparsa
dell’ostilità; e dobbiamo ricordarcene ancor più dopo l’eliminazione di Bin
Laden”. Schmitt già negli anni ’30 notava che con il concetto di guerra giusta,
e la moralizzazione del nemico, si
andava di pari passo verso la tendenza contemporanea alla “moralizzazione delle
questioni giuridiche (e) alla destabilizzazione delle relazioni internazionali.
Il deperimento dello Stato come justus
hostis, titolare esclusivo dello Jus
belli e del pari del principio internazionalistico par in parem non habet jurisdictionem, sono ora tutti nella
concezione globalista-mercatista (e imperialista) della universalità dei
diritti umani, della criminalizzazione di governi recalcitranti e relative
operazioni di “polizia internazionale”. Agli albori di questa evoluzione
Schmitt contrapponeva il concetto di grossraum,
di grandi aree geopolitiche in cui l’egemonia di una potenza manteneva – nello
spazio planetario – il pluralismo
anche se non nella forma dello jus
publicum europaeum. Che questa sia poi la configurazione che sta assumendo
il pianeta è evidente: l’idea di un universalismo incentrato sull’egemonia USA
è venuta meno; non foss’altro (basta e avanza) perché Cina e Russia non sono
d’accordo, ma anche l’India e non pochi altri Stati.
Il secondo è la
brillante analisi di Schmitt sulla successione, nello spirito europeo, di zone
centrali “zentragebiet” di
riferimento spirituale, che comporta corrispondenti discriminanti
dell’amico-nemico.
Anche qui il diffondersi
nell’area euroamericana una nuova scriminante del politico, segnata dalla
crescita di leader e movimenti
populisti anti-globalisti, dopo il venir meno della vecchia contrapposizione
borghesia/proletariato, conferma la tesi di Schmitt, sulla neutralizzazione
delle vecchie scriminanti e la (ri)-politicizzazione con le nuove. Neutralizzata
la scriminante borghesia/proletariato, è succeduta la nuova
identità/globalizzazione.
Il terzo punto è il
rapporto tra politico e diritto. La tendenza a neutralizzare il diritto, basata
sulla separazione tra momento fondativo
(sicuramente politico) che viene dai
normativisti occultato nella successiva situazione di normalità dell’ordine costituito. Così il normativismo “concepisce
la Costituzione come un ordine in sé chiuso, avendo la pretesa di ignorare
quanto essa dipenda non dal diritto ma dalla politica”. Di conseguenza
l’elisione positivistica dell’atto costituente “è insostenibile sotto ogni
punto di vista: la Costituzione non è «nata da se stessa», contrariamente a
quanto le finzioni normativistiche fanno credere”. Un normativista crede “in
modo ingenuo che una decisione maggioritaria del Parlamento basti a trasformare
l’Inghilterra in una Repubblica dei Soviet, il decisionista ritiene che solo un
atto politico del potere costituente … può abrogare o modificare le decisioni
politiche fondamentali che formano la sostanza della Costituzione. Onde “nessun
atto che emani da un potere costituito (da un organo costituzionale) potrebbe
modificarla, a meno che non si verifichi una rivoluzione che implichi la
distruzione dell’ordine costituzionale esistente”. La connessione stretta tra
politico e diritto impedisce o almeno ridimensiona gli idola diffusisi nel secolo scorso, che proprio sulla
elisione/sottovalutazione del politico si fondano: l’esaltazione del ruolo dei
Tribunali internazionali con competenze di carattere penale e civile; la “sacralizzazione”
dell’articolato costituzionale, che dall’elisione del potere costituente
guadagna in staticità (giustamente
Hauriou criticava Kelsen perché la di esso concezione del diritto era essenzialmente statica); la crescita dell’importanza delle Corti Costituzionali divenute
– attraverso meccanismi interpretativi ed anche per
le antinomie normative - le uniche competenti a “aggiornare” la Costituzione.
Tali esempi, tra altri,
dimostrano le fecondità del pensiero di Schmitt per interpretare il presente,
che Kervégan sottolinea pur con l’avvertenza del “cattivo uso” che se ne può
fare, soprattutto da parte di un potere totale.
Per chi, come oggi, vive la fase estrema di un potere di classi dirigenti
decadenti non può far altro che adattare a Schmitt l’omaggio che questi faceva
a Hobbes nel concludere il saggio sul Leviathan
“non jam frustra doces, Carl Schmitt”.
Teodoro
Klitsche de la Grange