30 maggio 2015

Carl Schmitt: «Dottrina della Costituzione» § 1: Concetto assoluto di costituzione (La costituzione come tutto unitario) - Appendice: citazioni contenute nel testo.

(B./status: v.1.2-2.6.15) 
APPENDICE
al § 1 della «Dottrina della Costituzione»

Index || Prec. ↔ Succ. || Analitico.

CITAZIONI
contenute nel § 1.

Sommario: 1. Aristotele: Politica, libro IV, cap. I, 5.  - 2.

) Pag. 16-17: ARISTOTELE =  Politica, libro IV, cap. I, 5. 
La parola «costituzione» ha spesso questo significato nei filosofi greci. Secondo ARISTOTELE lo Stato (πολιτεία) è un ordinamento (τάξις) della convivenza naturale degli uomini di una città (πόλις) o di un territorio. L’ordinamento concerne il potere nello Stato e la sua articolazione; in forza di esso esiste un sovrano (κύριος) ma ad esso spetta anche il fine (τέλος) vivente di questo ordinamento, contenuto nella peculiarità della forma politica concreta (Politica, libro IV, cap. I, 5). Se questa costituzione è rimossa, allora cessa lo Stato; se è posta una nuova costituzione, allora sorge il nuovo Stato.
È qui riportato per intero il Primo Capitolo del Libro IV della Politica di Aristotele nell’edizione italiana a cura di Carlo Augusto Viano: ARISTOTELE, Politica e costituzione di Atene, UTET, Torino 1955, pp. 173-165.

l. [1] Tutte le arti e scienze che non sono particolari, ma trattano in modo esauriente un unico genere, devono considerare ciascuna ciò che rientra nel proprio genere: per esempio quale esercizio si adatti ad un certo tipo di corpo, quale sia per esso il migliore esercizio (ché a chi da natura è dotato nel modo migliore e dispone delle migliori risorse necessariamente si adatta il migliore) e quale sia in genere l’esercizio che si adatta ai più nella loro totalità (ché anche questo è di competenza dell’arte ginnica). [2] E se anche non si desiderasse acquistare l’abilità negli esercizi o le nozioni che li riguardano, ciò non di meno sarebbe sempre còmpito dell’istruttore di ginnastica l’insegnarne l’esecuzione. [3] Ciò avviene anche nella medicina, nell’arte di costruire navi, nel confezionamento degli abiti ed in ogni altra tecnica. [4] Perciò è chiaro che c’è una scienza cui spetta di cercare quale sia la migliore costituzione, quale, più di ogni altra, sia adatta a soddisfare i nostri ideali, quando non vi fossero impedimenti esterni, e quale si adatti alle diverse condizioni in cui può essere messa in pratica: infatti, poiché è quasi impossibile che molti possano attuare la migliore, il buon legislatore ed il buon uomo politico devono sapere quale sia la migliore in senso assoluto e quale sia la migliore entro certe condizioni date. [5] Un terzo ramo della ricerca è lo studio di una costituzione data di cui bisogna saper determinare come sia sorta ed in che modo, una volta che sia sorta, possa essere conservata per il maggior tempo possibile; questo caso si dà quando in una città non vige la costituzione migliore per la quale mancano le condizioni necessarie, ma neppure la migliore che sarebbe possibile compatibilmente con le condizioni date, sibbene una assolutamente deteriore (1). [6] Ma, oltre a tutto ciò, bisogna conoscere quella che si adatta a tutte le città, perché la maggior parte degli scrittori di argomenti politici, se anche hanno detto alcune cose intelligenti, hanno trascurato ciò che poteva riuscire praticamente utile. [6] Infatti non bisogna solo cercare la costituzione assolutamente migliore, ma anche quella che può essere realizzata e, di sèguito, la più facile da realizzarsi e la più comune. [7] Ora invece gli uni cercano soltanto la più eccelsa che ha bisogno dei servizi più complessi, altri, mettendosi in cerca della più comune, prescindono da quelle attualmente in vigore e si dànno a lodare quella spartana o qualche altra. [8] Bisogna proporre un ordine che possa facilmente instaurarsi sulle condizioni preesistenti ed incorporarsi con esse, perché non è certo còmpito minore correggere una costituzione preesistente che fondame una nuova, come mutare di opinione dopo aver imparato per la prima volta. [9] Perciò l’uomo politico deve sapere prendere efficaci provvedimenti nelle costituzioni esistenti, come è già stato detto. [10] Ma questo è impossibile se non si conoscono quante siano le specie di costituzioni. [11] Ora, alcuni credono che ci sia una sola democrazia ed una sola oligarchia, ma ciò non è vero. [12] Perciò non bisogna ignorare le diversità che intercorrono tra le costituzioni, quante esse siano e in quanti modi possano comporsi.

[13] Procedendo a questo modo bisogna cercare quali siano le leggi migliori e quali quelle che si adattano ad ogni tipo di costituzione: infatti bisogna adattare quelle a questa (e tutte vi si adattano) e non questa a quelle. [14] La costituzione, da parte sua, è un ordine imposto alle città concernente il modo di distribuzione delle magistrature, il governo della cittadinanza ed il fine della comunità nel suo complesso e di ciascuno dei suoi membri. [15] Le leggi, in quanto distinte dalle norme fondamentali della costituzione, hanno il còmpito di prescrivere le regole secondo cui i magistrati devono governare e punire i trasgressori. [16] D’onde chiaramente consegue che bisogna conoscere le varietà di ciascuna costituzione ed il loro numero per compiere un’opportuna opera legislativa: infatti non è possibile che le medesime leggi siano adatte a tutte le oligarchie o a tutte le democrazie, se queste possono essere di tipi diversi.

1) Nota di Viano: «La fine del lib. III ha trattato le costituzioni migliori fondate sul predominio degli uomini o dell’uomo dotati di virtù. Ma ora il campo di studio della scienza politica si è allargato giungendo a comprendere anche le costituzioni non perfette, studiate nelle possibilità concrete che offrono in relazione con la situazione in cui sorgono».

) Pag. 17:  ISOCRATE =  Aeropagitico, XIV. 
ISOCRATE (Areopag. 14) chiama la costituzione anima della polis (ψύχη η‘ πολιτέα). 
È qui riportato in più ampio contesto il citato passo XIV dell’Aeropagitico di Isocrate nell’edizione italiana delle Opere con testo greco a fronte a cura di Mario Marzi  UTET, Volume primo, Torino 1991, pp. 361 ss.

Isocrate (436-338 a.C.)
Testo italiano:
[11] Ed è logico che agendo così ci accada questo, poiché nulla può riuscire come si deve a persone che non hanno preso sane deliberazioni sull’amministrazione complessiva dello Stato, ma che, anche se hanno successo in alcune imprese o per fortuna o per merito di un singolo, poco dopo si ritrovano nelle medesime difficoltà. È ciò che si può riconoscere dagli avvenimenti della nostra storia. [12] Quando l’Ellade intera era caduta sotto il dominio della nostra città dopo la vittoria navale di Conone e la campagna militare di Timoteo, non fummo capaci di conservare neanche per un momento i frutti della buona fortuna, ma subito li sprecammo  e annullamo, perché una costituzione che possa trattare ragionevolmente i nostri affari non ce l’abbiamo né ci sforziamo di cercarla. [13] Eppure tutti sappiamo che i successi arridono e restano non a coloro che sono circondati dalle mura più belle e più grandi né a coloro che sono riuniti nello stesso luogo con moltissimi altri, ma a coloro che governano la loro città nel modo migliore e più saggio. [14] L’anima della città non è altro che la costituzione (17), la quale ha tanto potere quanto appunto nel corpo la mente. È essa che delibera su tutti i problemi, che conserva i successi ed evita i disastri. Su essa devono modellarsi le leggi, gli uomini politici e i privati cittadini, e necessariamente ciascuno sta bene o male a seconda della costituzione che ha.

Nota 17 di Mario Marzi: «La stessa espressione ritornerà nel Panat., 38. Un concetto affine è espresso da Plat., Meness., 238c, Arist., Polit., IV, 9, 3 1295b e Dem., XXIV, 210.

) Pag. 17 = Georg JELLINEK (1851-1911), Allgemeine Staatslehre, p. 491.
Quando Georg JELLlNEK, Allgemeine Staatslehre, p. 491 pone la costituzione come «un ordinamento, conforme al quale si forma volontà statale», egli scambia un ordinamento effettivamente esistente con una norma, conforme alla quale qualcosa funziona esattamente e legalmente. Tutte le raffigurazioni che qui vengono in considerazione, unità, ordine, scopo (τέλος), vita, anima devono indicare qualcosa di esistente, non qualcosa di normativo, o più esattamente di dovuto.
Edizione 1921
Sono state consultate le edizioni del 1914, del 1921 e del 1929 della  Allgemeine Staatslehre, facendo uso di motori di ricerca, ma non è stato trovato l’esatto riscontro né a pag. 491 né altrove. Con riserva di ulteriori ricerche pubblichiamo qui accanto l’immagine della pag. 491 dell’edizione del 1921 della Allgemeine Staatslehre, terza edizione a cura di Walter Jellinek, figlio di Georg e autore di alcune recensione a libri di Schmitt. Il figlio Walter ha curato tutte le edizioni della Allgemeine Staatslehre seguite alla morte del padre. Si tratta per lo di ristampe identiche di edizioni esaurite, confrontate con le carte lasciate dal padre. Una edizione, del 1914, leggibile online la si trova nel sito Internet Archiv, alla voce  "Allgemeine Staatslehre”. La citazione di Schmitt è del resto testuale e puntuale. Sono grato a chiunque mi aiutasse a risolvere l’enigma ed a ritrovare l’esatto luogo della citazione. In effetti, la citazione qui fatta da Schmitt non è tecnicamente perfetta. Si cita la pagina, ma non l’edizione completa di anno e luogo. Ciò a distanza di tempo e latitudine produce difficoltà nel Lettore che voglia reperire la fonte o il passo citato.

4°) Pag. 18 = Tommaso d’Aquino (1225-1274), I, II, 19, 10 c.
In questo senso la parola «status» (accanto ad altre numerose accezioni, per esempio condizione in generale, ceto, e così via) è usata soprattutto nel medioevo e nel XVII sec. Tommaso d’AQUINO nella sua Summa Theologica (I, II, 19, 10 c) distingue come forme di Stato (status), ricollegandosi ad Aristotele: 1) lo Stato aristocratico (status optimatum), nel quale governa una minoranza che in qualche modo eccelle ed emerge (in quo pauci virtuosi principantur); 2) l’oligarchia (status paucorum), cioè il dominio della minoranza senza riguardo ad una speciale qualità eccellente; 3) la democrazia (lo status popularis), in cui domina la maggioranza dei contadini, degli artigiani e dei lavoratori.
Brano non rintracciato.

5°) Pag. 18 = Jean BODIN (1529-1596), Lex six livres de la République, I ed. 1577, l. VI.
BODIN (Les six livres de la République, I ed. 1577, specialmente nel libro VI) distingue secondo forme di Stato simili lo Stato popolare (état populaire), lo Stato monarchico (état royal) e lo Stato aristocratico.
È disponibile in rete su Internet Archive esattamente l’edizione citata da carl Schmitt, quella del 1577. Il Livre Sixieme, si trova da 605 in poi.

6°) Pag. 18 = Ugo GROZIO (1583-1645), De iure belli ac pacis.
 In GROZIO (De iure belli ac pacis, 1625) lo status è per quanto qui interessa la «forma civitatis» e perciò anche la costituzione.
Passo da ritrovare.

7°) Pag. 18 = Thomas HOBBES (1582-1679), De Cive, 1642, cap. 10.
In modo analogo HOBBES (per es. De cive, 1642, cap. 10) parla di status monarchicus, status democraticus, status mixtus, ccc.
Passo da ritrovare.

8°) Pag. 18 = Walter JELLINEK (1885-1955), Revolution und Reichsverfassung, in Jahrb. des öffentl. Rechts, IX, 1922, p. 22.
Con una rivoluzione che ha pieno successo è perciò senz’altro dato un nuovo Stato ed eo ipso una nuova costituzione. Così in Germania dopo il rivolgimento del novembre 1918 il Consiglio dei rappresentanti del popolo poteva parlare in un comunicato del 9 dicembre 1918 della «costituzione data dalla rivoluzione» (W. JELLINEK, Revolution und Reichsverfassung, in Jahrb. des öffentl. Rechts, IX, 1920, p. 22).
Passo da ritrovare. Una citazione più completa è la seguente: Walter JELLINEK, Revolution und Reichsverfassung. Bericht über die Zeit vom 9. November 1918 bis zum 31. Dezember 1919, Jahrbuch des öffentliches Rechts, Bd. IX, 1920, p. 22, con ricca letteratura.

9°) Pag. 19 = Tommaso d’AQUINO (1225-1274),
Lorenz von STEIN ha esposto questo concetto di costituzione in un grande contesto sistematico. Invero, egli parla soltanto delle costituzioni francesi a partire dal 1789, ma tocca anche un principio dualistico generale della dottrina costituzionale, che è chiaramente riconosciuto specialmente in Tommaso d’AQUINO (Summa Theol., I, II, 105, art. 1), mettendo in evidenza due cose (duo sunt attendenda): una volta la partecipazione di tutti i cittadini alla formazione della volontà statale (ut omnes aliquam partem habeant in principatu), ed una seconda volta la specie del governo e del potere (species regiminis vel ordinationis principatuum).
Passo da ritrovare.

10°) Pag. 19 = Lorenz von STEIN (1815-1890),
Per Stein le prime costituzioni della rivoluzione del 1789 (cioè le costituzioni del 1791, 1973, 1795) sono in senso proprio costituzioni statuali in contrapposizione agli ordinamenti statali, che incominciano con Napoleone (1799). La differenza consiste in quanto segue: la costituzione statuale è quell’ordinamento che produce l’accordo della volontà singola con la volontà generale dello Stato e riunisce i singoli come membri viventi dell’organismo statale. Tutte le istituzioni e i fenomeni costituzionali significano che lo Stato «si riconosce come l’unità personale della volontà di tutte le personalità libere, determinate all’autocontrollo. L’ordinamento statale invece considera i singoli e le autorità già come membri dello Stato ed esige da essi obbedienza. Nella costituzione statuale la vita statale sale dal basso verso l’alto; nell’ordinamento statale essa agisce dall’alto verso il basso. La costituzione statuale è libera formazione della volontà statale; l’ordine statale è l’esecuzione organica della volontà così formata (Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich, Bd. I, Der Begriff der Gesellschaft, ed. a cura di G. SALOMON, München 1921, voI. I, p. 408-9; inoltre, Verwaltungslehre, I, p. 25).
Passi da ritrovare.

11°) Pag. 19-20 = Ferdinand LASSALLE (1825-1864),
L’idea che la costituzione è il principio fondamentale effettivo dell’unità politica, ha trovato una espressione pregnante nella famosa conferenza di F. LASSALLE, Über Verfassungswesen (1862): «Se dunque la costituzione forma la legge fondamentale di un Land, essa è ... una forza attiva». Lassalle trova questa forza attiva e l’essenza della costituzione nei rapporti effettivi di potere.
Passo da ritrovare.

12°) Pag. 20 = Lorenz von STEIN (1815-1890),
Per il pensiero teoretico costituzionale del XIX sec. tedesco Lorenz VON STEIN è stato il punto di partenza (ed al tempo stesso la mediazione, in cui si manteneva attuale la filosofia dello Stato di Hegel). In Robert MOHL, nella dottrina dello Stato di diritto di Rudolf GNEIST, in Albert HAENEL, soprattutto, sono riconoscibili le idee di Stein. Ciò finisce quando termina il pensiero teoretico costituzionale, cioè con il dominio dei metodi di LABAND, che si limitano ad esercitare l’arte dell’interpretazione letterale al testo delle disposizioni legislative costituzionali; ciò si chiamava «positivismo».
Passo da ritrovare.

13°) Pag. 20 = G. W. F. HEGEL (1770-1831),
Per il pensiero teoretico costituzionale del XIX sec. tedesco Lorenz VON STEIN è stato il punto di partenza (ed al tempo stesso la mediazione, in cui si manteneva attuale la filosofia dello Stato di Hegel). In Robert MOHL, nella dottrina dello Stato di diritto di Rudolf GNEIST, in Albert HAENEL, soprattutto, sono riconoscibili le idee di Stein. Ciò finisce quando termina il pensiero teoretico costituzionale, cioè con il dominio dei metodi di LABAND, che si limitano ad esercitare l’arte dell’interpretazione letterale al testo delle disposizioni legislative costituzionali; ciò si chiamava «positivismo».
Passo da ritrovare.

14°) Pag. 20 = Robert von MOHL (1799-1875), 
Per il pensiero teoretico costituzionale del XIX sec. tedesco Lorenz VON STEIN è stato il punto di partenza (ed al tempo stesso la mediazione, in cui si manteneva attuale la filosofia dello Stato di Hegel). In Robert MOHL, nella dottrina dello Stato di diritto di Rudolf GNEIST, in Albert HAENEL, soprattutto, sono riconoscibili le idee di Stein. Ciò finisce quando termina il pensiero teoretico costituzionale, cioè con il dominio dei metodi di LABAND, che si limitano ad esercitare l’arte dell’interpretazione letterale al testo delle disposizioni legislative costituzionali; ciò si chiamava «positivismo».
Passo da ritrovare.

15°) Pag. 20 = Rudolf GNEIST (1816-1895),
Per il pensiero teoretico costituzionale del XIX sec. tedesco Lorenz VON STEIN è stato il punto di partenza (ed al tempo stesso la mediazione, in cui si manteneva attuale la filosofia dello Stato di Hegel). In Robert MOHL, nella dottrina dello Stato di diritto di Rudolf GNEIST, in Albert HAENEL, soprattutto, sono riconoscibili le idee di Stein. Ciò finisce quando termina il pensiero teoretico costituzionale, cioè con il dominio dei metodi di LABAND, che si limitano ad esercitare l’arte dell’interpretazione letterale al testo delle disposizioni legislative costituzionali; ciò si chiamava «positivismo».
Passo da ritrovare.

16°) Pag. 20 = Albert HAENEL (1833-1918),
Per il pensiero teoretico costituzionale del XIX sec. tedesco Lorenz VON STEIN è stato il punto di partenza (ed al tempo stesso la mediazione, in cui si manteneva attuale la filosofia dello Stato di Hegel). In Robert MOHL, nella dottrina dello Stato di diritto di Rudolf GNEIST, in Albert HAENEL, soprattutto, sono riconoscibili le idee di Stein. Ciò finisce quando termina il pensiero teoretico costituzionale, cioè con il dominio dei metodi di LABAND, che si limitano ad esercitare l’arte dell’interpretazione letterale al testo delle disposizioni legislative costituzionali; ciò si chiamava «positivismo».
Passo da ritrovare.

17°) Pag. 20 = Paul LABAND (1838-1918),
Per il pensiero teoretico costituzionale del XIX sec. tedesco Lorenz VON STEIN è stato il punto di partenza (ed al tempo stesso la mediazione, in cui si manteneva attuale la filosofia dello Stato di Hegel). In Robert MOHL, nella dottrina dello Stato di diritto di Rudolf GNEIST, in Albert HAENEL, soprattutto, sono riconoscibili le idee di Stein. Ciò finisce quando termina il pensiero teoretico costituzionale, cioè con il dominio dei metodi di LABAND, che si limitano ad esercitare l’arte dell’interpretazione letterale al testo delle disposizioni legislative costituzionali; ciò si chiamava «positivismo».
Passo da ritrovare.

18°) Pag. 20 = Rudolf SMEND (1882-1975),
Per primo Rudolf SMEND, nel suo Saggio «Il potere politico nello Stato costituzionale e il problema della forma di Stato» (Festgabe für W. Kahl, Tübingen 1923), ha posto di nuovo in tutta la sua estensione il problema teoretico della costituzione. Alle idee di questo Saggio in seguito si dovrà ritornare ancora assai spesso. Così come esse si presentano finora – purtroppo soltanto in uno schizzo –, mi sembra che la dottrina della «integrazione» dell’unità statale contenga un’immediata continuazione delle teorie di Lorenz von Stein.
Passo da ritrovare.

19°) Pag. 21 = Joseph BARTHÉLEMY (1874-1945),
Così parla della sovranità della costituzione un tipico «dottrinario» del periodo della restaurazione e di Luigi Filippo, Royer-Collard (rinvii in J. BARTHÉLEMY, Introduction du régime parlementaire en France, 1904, p. 20 ss.);
Passo da ritrovare.

20°) Pag. 21 = François GUIZOT (1787-1874),
GUIZOT, un classico rappresentante dello Stato di diritto liberale, parla della «sovranità della ragione», della giustizia e di altre astrazioni, nel giusto riconoscimento che una norma può chiamarsi «sovrana» solo finché non è un comando ed una volontà positiva, ma il razionalmente giusto, la ragione e la giustizia, cioè ha determinate qualità; giacché, diversamente è veramente sovrano quegli che vuole e comanda.
Passo da ritrovare.

21°) Pag. 22 = Alexis TOCQUEVILLE (1805-1859),
TOCQUEVILLE con riferimento alla costituzione francese del 1830 ha sostenuto in modo conseguente l’immodificabilità della costituzione ed ha posto in rilievo che il complesso dei poteri del popolo, del re, come pure del parlamento è derivato da questa costituzione e che fuori della costituzione tutte queste entità politiche non sono niente («hors de la Constitution il ne sont rien», nota 12 al voI. I, cap. 6 della «Démocratie en Amérique»).
Passo da ritrovare.

22°) Pag. 22-23 = Hans KELSEN (1881-1973),
La dottrina dello Stato di H. KELSEN, ripetuta in molti libri (Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatz, II ed., 1923; Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, 1920; Der soziologische und der juristische Staatsbegriff, 1922; Allgemeine Staatslehre, 1925), rappresenta pure lo Stato come un sistema e un’unità di norme giuridiche, a dire il vero senza il minimo tentativo di spiegare il principio logico e oggettivo di questa «unità» e di questo «sistema», e senza chiarire come accade e secondo quale necessità si verifica che le numerose disposizioni legislative positive di uno Stato e le diverse norme legislative costituzionali formino un simile «sistema» o una «unità». L’essere o il divenire politico dell’ordine dell’unità statale è trasformato in un funzionare, la contrapposizione di essere e dovere è continuamente confusa con la contrapposizione di essere sostanziale e funzionamento conforme alla legge. La teoria diventa però comprensibile, se la si vede come l’ultima diramazione della teoria pura, prima illustrata, dello Stato di diritto borghese, che cercava di fare dello Stato un ordinamento giuridico e scorgeva in ciò l’essenza dello Stato di diritto. Nella sua grande epoca, nel XVII e XVIII secolo, la borghesia trovò la forza per un vero sistema, cioè per il diritto naturale e razionale individualistico, e formò con concetti come proprietà e libertà personale norme valide in se stesse, che hanno vigenza davanti e al di sopra di ogni essere politico, perché sono giuste e razionali e perciò senza riguardo alla realtà esistente, cioè giuridico-positiva, contengono un autentico dovere. Ciò era normatività conseguente; qui si poteva parlare di sistema, ordinamento e unità. In Kelsen, invece, hanno vigenza soltanto norme positive, cioè quelle norme che hanno effettiva vigenza; esse vigono non perché debbono vigere per la loro maggiore giustezza, ma senza riguardo a qualità come razionalità, giustizia, ecc., solo perché sono positive. Qui cessa improvvisamente il dovere e cade la normatività; al suo posto appare la tautologia di una cruda effettività: qualcosa vige, se vige e perché vige. Questo è « positivismo». Chi insiste seriamente sul fatto che «la» costituzione deve valere come norma fondamentale e da qui deve derivarsi quanto altro v’é di vigente, non può prendere come fondamento di un puro sistema di pure norme qualsivogliano concrete disposizioni perché sono poste da una determinata autorità, sono riconosciute e perciò sono indicate come «positive», cioè sono solo fattualmente efficaci. Solo da principi sistematici, normativamente conseguenti senza riguardo alla vigenza «positiva», cioè giusti in se stessi, in forza della loro razionalità o giustezza, si può far derivare una unità o un ordinamento normativo.
Passo da ritrovare.








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Carl Schmitt: «Dottrina della Costituzione» § 1: Concetto assoluto di costituzione (La costituzione come tutto unitario)

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Pagina in costruzione. Questa edizione digitale nasce per finalità didattiche e con liberatoria dell’editore italiano e salvo obiezioni dall’editore tedesco o degli aventi diritto. La traduzione è stata da me eseguita nel 1984 e non ha avuto da allora nuova edizione. Colgo ora occasione per correggere i refusi e per eventuali miglioramenti della traduzione stessa, che resta disponibile per un nuovo contratto di edizione a stampa. Colgo altresì occasione per un corredo che non sarà mai possibile in una edizione cartacea. Il testo è qui integrato da un indice analitico generale, dizionario bio-bibliografico, apparati bibliografici per il tedesco, italiano, inglese, francese, spagnolo e ogni altra lingua da me in futuro conosciuta, o affidati a collaboratori, dizionario cronologico, connessione testuali con la rete e da eventuale dibattito e Forum nello spazio commenti e da un’iconografia, attinta per lo più dalla rete, finalizzata ad alleggerire la pesantezza della lettura sul monitor.  / Bottom / Vers. 1.3 - 2.6.2015

 CAPITOLO PRIMO
CONCETTO DI COSTITUZIONE
§ 1
Concetto assoluto di costituzione
(La costituzione come tutto unitario)

Analitico / Dizionario | p. 15-25 | Bibliografia / Cronologia

Sommario:  I. Costituzione come stato complessivo dell’ordinamento e dell’unità concreta o come forma di Stato (« forma delle forme»). – I.1 Primo significato: la concreta condizione generale dell’unità politica e dell’ordinamento sociale di un determinato stato. – I.2 Secondo significato: una specie particolare di ordinamento politico e sociale. – I.3 Terzo significato: costituzione come il principio del divenire dinamico dell’unità politica, del processo di nascita e di formazione sempre nuova di questa unità. – II. Costituzione in senso normativo («norma delle norme»). – II.1 Costituzione come semplice “dovere”. – II.2 Una costituzione vige perché emana da un potere costituente. – II.3 Costituzione intesa come codificazione chiusa. – || Appendice al § 1 | → § 2 Sommario | Bottom. -
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La parola «costituzione» ha più di un significato. In un’accezione generale della parola tutto, uomini e cose, aziende e società, è in una «costituzione» e tutto ciò che è possibile può avere una costituzione. Da ciò non vien fuori nessun concetto specifico. La parola «costituzione» deve essere limitata alla costituzione dello Stato, cioè all’unità politica di un popolo, se la si vuol rendere intellegibile. Con questa limitazione può indicare lo Stato stesso, e precisamente il singolo, concreto Stato in quanto unità politica o come un particolare, concreto modo e forma dell’esistenza statale; allora significa la condizione generale dell’unità e dell’ordinamento politico. «Costituzione» può però significare anche un sistema chiuso di norme ed in tal caso indica ugualmente una unità, anche se non concretamente esistente, ma soltanto pensata, ideale. In tutte due i casi il concetto di costituzione è assoluto, poiché indica un tutto (effettivo o pensato). Accanto a questo è oggi prevalente un modo di esprimersi che chiama costituzione una serie di leggi fatte in un determinato modo. Costituzione e legge costituzionale sono trattate alla stessa stregua. In questo modo ogni singola legge costituzionale può passare come costituzione. Il concetto diventa pertanto relativo; esso non concerne più un tutto, un ordinamento ed unità, ma alcune, varie o molte disposizioni legislative formate secondo un procedimento speciale.

La definizione usuale dei manuali è: costituzione = norma o legge fondamentale. Cosa significhi «fondamento» rimane per lo più oscuro; spesso significa soltanto, quasi come una parola d’ordine,
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qualcosa di politicamente assai importante o di inviolabile, così come si parla pure confusamente di diritti fondamentali, di «ancoraggio», ecc. Il significato teorico costituzionale di simili locuzioni risulta dall’analisi concettuale che segue; cfr. il prospetto dei diversi significati di «lex fundamentalis», «norma fondamentale» o «legge fondamentale», infra, § 5, p. 65.

I. / S / B / A / - Costituzione in senso assoluto può significare in primo luogo il concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente.

1.  / S / B / A / - Primo significato: costituzione = la concreta condizione generale dell’unità politica e dell’ordinamento sociale di un determinato Stato. Ad ogni Stato sono inerenti unità politica ed ordinamento sociale, quali che siano i principi dell’unità e dell’ordinamento e quale che sia l’istanza che nel caso critico decide normativamente nei conflitti di interessi e di potere. Questa condizione generale dell’unità politica e dell’ordinamento sociale la si può chiamare costituzione. La parola indica allora non un sistema o una serie di princìpi giuridici e di norme, secondo cui si regola la formazione della volontà statale e l’esercizio dell’attività statale e nella cui osservanza è visto l’ordine, ma propriamente il singolo Stato concreto – Reich tedesco, Francia, Inghilterra – nella sua concreta esistenza politica. Lo Stato non ha una costituzione, «conforme alla quale» si forma e funziona una volontà statale, ma lo Stato è la costituzione, cioè una condizione presente conforme a se stessa, uno status di unità e ordine. Lo Stato cesserebbe di esistere se questa costituzione, cioè questa unità e ordine, cessasse.  La costituzione è la sua «anima», la sua vita concreta e la sua esistenza individuale.
Aristotele (384-322 a.C.)

La parola «costituzione» ha spesso questo significato nei filosofi greci. Secondo ARISTOTELE lo Stato (πολιτεία) è un ordinamento (τάξις) della convivenza naturale degli uomini di una città (πόλις) o di un territorio. L’ordinamento concerne il potere nello Stato e la sua articolazione; in forza di esso esiste un sovrano (κύριος) ma ad esso spetta anche il fine (τέλος) vivente di questo
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ordinamento, contenuto nella peculiarità della forma politica concreta (Politica, libro IV, cap. I, 5). Se questa costituzione è rimossa, allora cessa lo Stato; se è posta una nuova costituzione, allora sorge il nuovo Stato. ISOCRATE (Areopag. 14) chiama la costituzione anima della polis (ψύχη η‘ πολιτεία). Questa raffigurazione della costituzione è forse chiarita molto meglio da un paragone: il canto o il brano musicale di un coro rimane lo stesso, se gli uomini che lo cantano o rappresentano si scambiano o se si scambia il posto in cui essi cantano o suonano. L’unità e l’ordine rimane nel canto e nella partitura come l’unità e l’ordine dello Stato rimane nella sua  costituzione.
G. Jellinek (1851-1911)

Quando Georg JELLlNEK, Allgemeine Staatslehre, p. 491 pone la costituzione come «un ordinamento, conforme al quale si forma volontà statale», egli scambia un ordinamento effettivamente esistente con una norma, conforme alla quale qualcosa funziona esattamente e legalmente. Tutte le raffigurazioni che qui vengono in considerazione, unità, ordine, scopo (τέλος), vita, anima devono indicare qualcosa di esistente, non qualcosa di normativo, o più esattamente di dovuto.

2.  / S / B / A / - Secondo significato: costituzione =  una specie particolare di ordinamento politico e sociale. Costituzione significa la forma concreta dell’ordinamento superiore e inferiore, poiché nella realtà sociale non esiste nessun ordinamento senza un ordinamento superiore ed uno inferiore. Qui costituzione è la forma particolare del potere, che spetta ad ogni Stato e non si può separare dalla sua esistenza politica; per esempio, monarchia, aristocrazia o democrazia, o come altro si vuol dividere le forme di Stato. Costituzione è qui = forma di Stato. Anche qui la parola «forma» indica qualcosa di conforme all’essere, uno status, e non qualcosa di conforme a un principio giuridico o di normativamente dovuto. Anche in questa accezione della parola ogni Stato ha ovviamente una costituzione, giacché esso corrisponde sempre ad una qualche forma, in cui esistono Stati. Anche qui sarebbe più esatto dire che lo Stato è una costituzione; è una monarchia, un’aristocrazia, una democrazia, una repubblica dei Soviet, e non ha soltanto una costituzione monarchica, ecc. La costituzione è qui la «forma delle forme», forma formarum.
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Tommaso d’Aquino (1225-74)
In questo senso la parola «status» (accanto ad altre numerose accezioni, per esempio condizione in generale, ceto, e così via) è usata soprattutto nel medioevo e nel XVII sec. Tommaso d’AQUINO nella sua Summa Theologica (I, II, 19, 10 c) distingue come forme di Stato (status), ricollegandosi ad Aristotele: 1) lo Stato aristocratico (status optimatum), nel quale governa una minoranza che in qualche modo eccelle ed emerge (in quo pauci virtuosi principantur); 2) l’oligarchia (status paucorum), cioè il dominio della minoranza senza riguardo ad una speciale qualità eccellente; 3) la democrazia (lo status popularis), in cui domina la maggioranza dei contadini, degli artigiani e dei lavoratori. BODIN (Les six livres de la République, I ed. 1577, specialmente nel libro VI) distingue secondo forme di Stato simili lo Stato popolare (état populaire), lo Stato monarchico (état royal) e lo Stato aristocratico. In GROZIO (De iure belli ac pacis, 1625) lo status è per quanto qui interessa la «forma civitatis» e perciò anche la costituzione. In modo analogo HOBBES (per es. De cive, 1642, cap. 10) parla di status monarchicus, status democraticus, status mixtus, ccc.

Con una rivoluzione che ha pieno successo è perciò senz’altro dato un nuovo Stato ed eo ipso una nuova costituzione. Così in Germania dopo il rivolgimento del novembre 1918 il Consiglio dei rappresentanti del popolo poteva parlare in un comunicato del 9 dicembre 1918 della «costituzione data dalla rivoluzione» (W. JELLINEK, Revolution und Reichsverfassung, in Jahrb. des öffentl. Rechts, IX, 1920, p. 22).

3.  / S / B / A / - Terzo significato: costituzione = il principio del divenire dinamico dell’unità politica, del processo di nascita e di formazione sempre nuova di questa unità con una forza ed un’energia che sta alla base o che agisce dalle fondamenta. Qui lo Stato è concepito non come qualcosa di esistente, di quietamente statico, ma come qualcosa che diviene, che nasce sempre di nuovo. Da interessi, opinioni e premure diverse e contrapposte l’unità politica deve formarsi quotidianamente, deve – secondo l’espressione di Rudolf Smend – «integrarsi».

Questo concetto di costituzione è in contraddizione con i precedenti concetti che parlano di uno Stato (nel senso di un’unità statica).
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Veramente nella rappresentazione di Aristotele è presente anche l’elemento dinamico e la stretta separazione di statico e dinamico ha qualcosa di artificioso e forzato. In ogni caso questo concetto «dinamico» rimane nella sfera dell’essere (che diviene) e dell’esistere; la costituzione, cioè, non diventa ancora (come nel concetto di costituzione da trattare sotto il punto II) una semplice regola o norma, sotto la quale si sussume. La costituzione è il principio attivo di un processo dinamico di energie effettuali, un elemento del divenire, ma realmente, non una procedura regolamentata di norme e attribuzioni di «dover essere».
Lorenz von Stein (1815-90)

Lorenz von STEIN ha esposto questo concetto di costituzione in un grande contesto sistematico. Invero, egli parla soltanto delle costituzioni francesi a partire dal 1789, ma tocca anche un principio dualistico generale della dottrina costituzionale, che è chiaramente riconosciuto specialmente in Tommaso d’AQUINO (Summa Theol., I, II, 105, art. 1), mettendo in evidenza due cose (duo sunt attendenda): una volta la partecipazione di tutti i cittadini alla formazione della volontà statale (ut omnes aliquam partem habeant in principatu), ed una seconda volta la specie del governo e del potere (species regiminis vel ordinationis principatuum). È la vecchia contrapposizione di libertà e ordine, che è affine alla contrapposizione dei princìpi politico-formali (identità e rappresentanza) da sviluppare più avanti (§ 16, II). Per Stein le prime costituzioni della rivoluzione del 1789 (cioè le costituzioni del 1791, 1973, 1795) sono in senso proprio costituzioni statuali in contrapposizione agli ordinamenti statali, che incominciano con Napoleone (1799). La differenza consiste in quanto segue: la costituzione statuale è quell’ordinamento che produce l’accordo della volontà singola con la volontà generale dello Stato e riunisce i singoli come membri viventi dell’organismo statale. Tutte le istituzioni e i fenomeni costituzionali significano che lo Stato «si riconosce come l’unità personale della volontà di tutte le personalità libere, determinate all’autocontrollo. L’ordinamento statale invece considera i singoli e le autorità già come membri dello Stato ed esige da essi obbedienza. Nella costituzione statuale la vita statale sale dal basso verso l’alto; nell’ordinamento statale essa agisce dall’alto verso il basso. La costituzione statuale è libera formazione della volontà statale; l’ordine statale è l’esecuzione organica della volontà così formata (Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich, Bd. I, Der Begriff der Gesellschaft, ed. a cura di G. SALOMON, München 1921, voI. I, p. 408-9; inoltre, Verwaltungslehre, I, p. 25). L’idea che la costituzione è il principio fondamentale effettivo dell’unità politica, ha trovato una espressione pregnante nella famosa conferenza di F. LASSALLE, Über
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Verfassungswesen (1862): «Se dunque la costituzione forma la legge fondamentale di un Land, essa è ... una forza attiva». Lassalle trova questa forza attiva e l’essenza della costituzione nei rapporti effettivi di potere.

Per il pensiero teoretico costituzionale del XIX sec. tedesco Lorenz VON STEIN è stato il punto di partenza (ed al tempo stesso la mediazione, in cui si manteneva attuale la filosofia dello Stato di Hegel). In Robert MOHL, nella dottrina dello Stato di diritto di Rudolf GNEIST, in Albert HAENEL, soprattutto, sono riconoscibili le idee di Stein. Ciò finisce quando termina il pensiero teoretico costituzionale, cioè con il dominio dei metodi di LABAND, che si limitano ad esercitare l’arte dell’interpretazione letterale al testo delle disposizioni legislative costituzionali; ciò si chiamava «positivismo».
(1882-1975)

Per primo Rudolf SMEND, nel suo Saggio «Il potere politico nello Stato costituzionale e il problema della forma di Stato» (Festgabe für W. Kahl, Tübingen 1923), ha posto di nuovo in tutta la sua estensione il problema teoretico della costituzione. Alle idee di questo Saggio in seguito si dovrà ritornare ancora assai spesso. Così come esse si presentano finora – purtroppo soltanto in uno schizzo –, mi sembra che la dottrina della «integrazione» dell’unità statale contenga un’immediata continuazione delle teorie di Lorenz von Stein.

II.  / S / B / A / - Costituzione in senso assoluto può significare una regolamentazione legislativa di base, cioè un sistema unitario e chiuso delle norme più alte e ultime (costituzione = norma delle norme).

1. / S / B / A / - Qui la costituzione non è una condizione conforme a se stessa, e neppure un divenire dinamico, ma qualcosa di normativo, un semplice «dovere». Non si tratta però di singole leggi o norme, anche se forse molto importanti e poste in rilievo con contrassegni esteriori, ma in genere della normazione globale della vita statale, della legge fondamentale nel senso di una unità conclusa, di «legge delle leggi». Tutte le altre leggi e norme devono poter essere ricondotte a questa unica norma. Con questa accezione del termine lo Stato diventa un ordinamento giuridico che poggia sulla costituzione in quanto norma fondamentale, cioè una unità di norme giuridiche. Qui la parola «costituzione» indica una unità ed una
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generalità. È perciò pure possibile identificare Stato e costituzione. Non però come nel precedente significato della parola, dove è Stato = costituzione, ma viceversa: la costituzione è lo Stato, poiché lo Stato è considerato come qualcosa che deve essere conforme ad una norma e si vede in essa soltanto un sistema di norme, un ordinamento «del diritto», che esiste non conformemente all’essere, ma vige conformemente al dovere, che però ciononostante istituisce un concetto assoluto di costituzione – poiché qui è posta una unità sistematica, conclusa di norme ed è equiparata allo Stato –. Perciò è anche possibile indicare la costituzione in questo senso come «sovrana», anche se l’espressione è in sé oscura. Giacché più propriamente, può essere sovrano soltanto qualcosa di concretamente esistente, non una norma che è semplicemente vigente.

Pierre-Paul Royer-Collard (1763-1845)
Il modo di dire secondo cui non gli uomini, ma le norme e le leggi governano e devono essere in questo senso «sovrane», è molto antico. Per la moderna dottrina della costituzione interessa il seguente sviluppo storico: all’epoca della restaurazione monarchica in Francia e sotto la monarchia di Luglio (cioè dal 1815 fino al 1848) in special modo i rappresentanti del liberalismo borghese, i cosiddetti «dottrinari», hanno definito la costituzione (la Charte) come «sovrana». Questa curiosa personificazione di una legge scritta aveva il senso di innalzare la legge con le sue garanzie delle libertà borghesi e della proprietà privata al di sopra di ogni potere politico. In questo modo era abbracciata la questione autenticamente politica, se fosse sovrano il principe o il popolo; la risposta suonava semplicemente: né il principe né il popolo, ma è sovrana «la costituzione» (cfr. infra, § 6 II 7, p. 81). Questa è la risposta tipica dei liberali dello Stato borghese di diritto, per i quali tanto la monarchia quanto la democrazia è limitata nell’interesse della libertà borghese e della proprietà privata (su ciò, infra, § 16, p. 285). Così parla della sovranità della costituzione un tipico «dottrinario» del periodo della restaurazione e di Luigi Filippo, Royer-Collard (rinvii in J. BARTHÉLEMY, Introduction du régime parlementaire en France, 1904, p. 20 ss.); GUIZOT, un classico rappresentante dello Stato di diritto liberale, parla della «sovranità della ragione», della giustizia e di altre astrazioni, nel giusto riconoscimento che una norma può chiamarsi «sovrana» solo finché non è un comando ed una volontà positiva, ma il razionalmente giusto, la ragione e
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la giustizia, cioè ha determinate qualità; giacché, diversamente è veramente sovrano quegli che vuole e comanda. TOCQUEVILLE con riferimento alla costituzione francese del 1830 ha sostenuto in modo conseguente  l’immodificabilità della costituzione ed ha posto in rilievo che il complesso dei poteri del popolo, del re, come pure del parlamento è derivato da questa costituzione e che fuori della costituzione tutte queste entità politiche non sono niente («hors de la Constitution il ne sont rien», nota 12 al voI. I, cap. 6 della «Démocratie en Amérique»).

Hans Kelsen (1881-1973)
La dottrina dello Stato di H. KELSEN, ripetuta in molti libri (Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatz, II ed., 1923; Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, 1920; Der soziologische und der juristische Staatsbegriff, 1922; Allgemeine Staatslehre, 1925), rappresenta pure lo Stato come un sistema e un’unità di norme giuridiche, a dire il vero senza il minimo tentativo di spiegare il principio logico e oggettivo di questa «unità» e di questo «sistema», e senza chiarire come accade e secondo quale necessità si verifica che le numerose disposizioni legislative positive di uno Stato e le diverse norme legislative costituzionali formino un simile «sistema» o una «unità». L’essere o il divenire politico dell’ordine dell’unità statale è trasformato in un funzionare, la contrapposizione di essere e dovere è continuamente confusa con la contrapposizione di essere sostanziale e funzionamento conforme alla legge. La teoria diventa però comprensibile, se la si vede come l’ultima diramazione della teoria pura, prima illustrata, dello Stato di diritto borghese, che cercava di fare dello Stato un ordinamento giuridico e scorgeva in ciò l’essenza dello Stato di diritto. Nella sua grande epoca, nel XVII e XVIII secolo, la borghesia trovò la forza per un vero sistema, cioè per il diritto naturale e razionale individualistico, e formò con concetti come proprietà e libertà personale norme valide in se stesse, che hanno vigenza davanti e al di sopra di ogni essere politico, perché sono giuste e razionali e perciò senza riguardo alla realtà esistente, cioè giuridico-positiva, contengono un autentico dovere. Ciò era normatività conseguente; qui si poteva parlare di sistema, ordinamento e unità. In Kelsen, invece, hanno vigenza soltanto norme positive, cioè quelle norme che hanno effettiva vigenza; esse vigono non perché debbono vigere per la loro maggiore giustezza, ma senza riguardo a qualità come razionalità, giustizia, ecc., solo perché sono positive. Qui cessa improvvisamente il dovere e cade la normatività; al suo posto appare la tautologia di una cruda effettività: qualcosa vige, se vige e perché vige. Questo è « positivismo». Chi insiste seriamente sul fatto che «la» costituzione deve valere come
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norma fondamentale e da qui deve derivarsi quanto altro v’é di vigente, non può prendere come fondamento di un puro sistema di pure norme qualsivogliano concrete disposizioni perché sono poste da una determinata autorità, sono riconosciute e perciò sono indicate come «positive», cioè sono solo fattualmente efficaci. Solo da principi sistematici, normativamente conseguenti senza riguardo alla vigenza «positiva», cioè giusti in se stessi, in forza della loro razionalità o giustezza, si può far derivare una unità o un ordinamento normativo.

2. / S / B / A / - In verità, una costituzione vige, perché emana da un potere costituente (cioè, potestà o autorità (1)) ed è posta dalla sua volontà. In contrapposizione alle mere norme la parola «volontà», indica una entità esistente in quanto origine di un dovere. La volontà è esistenzialmente presente, la sua potestas o autorità consiste nel suo essere. Una norma può aver vigenza, perché è giusta; in tal caso la conseguenza sistematica porta al diritto naturale e non alla costituzione positiva; oppure, una norma ha vigenza perché è positivamente emanata, cioè in forza di un volere esistente. Una norma non pone mai se stessa (questo è un modo di dire fantastiço), ma essa è riconosciuta come giusta, perché è derivabile da princìpi, la cui essenza è pure giustezza e non soltanto positività, cioè esistenza fattualmente emanata. Chi dice che la costituzione vige come norma fondamentale (non come volontà positiva), sostiene perciò che essa è in grado di reggere un sistema chiuso di principi giusti in  forza di determinate qualità logiche, morali o di altro genere attinenti al contenuto. Dire che una costituzione non vige per la sua giustezza normativa, ma soltanto per la sua positività e che ciò non ostante in quanto pura norma fondi un sistema o un ordinamento di pure norme, è una confusione del tutto contraddittoria.

Non esiste nessun sistema costituzionale chiuso di genere puramente normativo ed è arbitrario considerare come unità e ordinamento sistematico una serie di singole disposizioni, che
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In Weimar 6 febbraio 1919
sono intese come leggi costituzionali, se l’unità non sorge da una volontà unitaria presupposta. Parimenti è arbitrario parlare senz’altro di ordinamento giuridico. Il concetto di ordinamento giuridico contiene due elementi totalmente diversi: l’elemento normativo del diritto e l’elemento esistenziale dell’ordinamento concreto. L’unità e l’ordine è nell’esistenza politica dello Stato, non in leggi, regole o qualsivoglia normatività. Le raffigurazioni e le parole che parlano della costituzione come di una «legge fondamentale» o di una «norma fondamentale», sono per lo più oscure o imprecise. Esse attribuiscono ad una serie di norme assai diverse, per es. ai 181 articoli della costituzione di Weimar, una «unità» sistematica, normativa e logica. Davanti alla diversità concettuale e contenutistica delle singole disposizioni contenute nella maggior parte delle leggi costituzionali ciò è nient’altro che una gigantesca finzione. L’unità del Reich tedesco poggia non sui 181 articoli e sulla loro vigenza, ma sull’esistenza politica del popolo tedesco. La volontà del popolo tedesco, cioè qualcosa di esistenziale, superando tutte le contraddizioni sistematiche, le sconnessioni e le oscurità delle singole leggi costituzionali, fonda l’unità politica e di diritto pubblico. La costituzione di Weimar vige perché il popolo tedesco «si è data questa costituzione».

(1) Sulla opposizione fra potere (potestas) e auctoritas, cfr. l’annotazione al § 8, p. 1109.

3. / S / B / A / - Le rappresentazioni della costituzione come un’unità normativa e qualcosa di assoluto si spiegano storicamente con un’epoca, nella quale si riteneva che la costituzione tosse una codificazione chiusa. Nel 1789 dominava in Francia questa fede razionalistica nella saggezza di un legislatore, e ci si credeva capaci di formulare un piano consapevole e completo di tutta quanta la vita politica e sociale; anzi, alcuni avevano scrupoli a prendere in considerazione anche soltanto la possibilità di una modificazione e revisione. Ma la fede nella possibilità di un sistema di disposizioni normative, chiuso, abbracciante lo Stato nella sua totalità e definitivamente giusto, oggi non esiste più. Oggi è diffusa l’opposta consapevolezza che il
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testo di ogni costituzione dipende dalla situazione politica e sociale all’epoca della sua formazione. I motivi per cui determinate statuizioni legislative sono scritte proprio in una «costituzione» e non in una legge ordinaria dipendono da considerazioni politiche e dalle combinazioni delle coalizioni partitiche. Insieme con la fede nella codificazione e nell’unità sistematica cade però anche il concetto normativo puro della costituzione, così come lo presuppone l’idea liberale di un assoluto Stato di diritto. Esso era possibile solo finché i presupposti metafisici del diritto naturale borghese trovavano credito. La costituzione si trasforma adesso in una serie di singole leggi costituzionali positive. Se ciò non ostante si continua ancora a parlare di norma fondamentale, legge fondamentale, ecc. – è qui superfluo citare esempi e pezze d’appoggio –, ciò accade per effetto delle formule tradizionali, che da gran tempo sono diventate vuote. Egualmente, è impreciso e fuorviante continuare quindi a parlare «della» costituzione. In realtà ci si riferisce ad una pluralità non sistematica o ad una molteplicità di disposizioni legislative costituzionali. Il concetto di costituzione è relativizzato in concetto di singola legge costituzionale.

27 maggio 2015

Hugo Ball: «La teologia politica di Carl Schmitt»

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Hugo Ball (1886-1927)
Hugo Ball nacque a Pirmasens (Renania-Palatinato) il 22 febbraio 1886 e morì a Sant’Abbondio (oggi Gentilino) il 14 settembre 1927, all’età di 41 anni. Il saggio che segue fa parte della Bibliografia su Carl Schmitt ed apparve in Hochland, 1924, Juniheft, p. 263-286. Fece le scuole secondarie a Zweibrücken, studiò a Monaco, Heidelberg e Basilea. Di formazione pietista, poi convertitosi al cattolicesimo, Ball fu lettore di Friedrich Nietzsche. Visse a Berlino. Emigrò in Svizzera nel 1915. Fu tra i fondatori del dadaismo e svolse come giornalista attività di critica culturale e politica. Il suo articolo sulla teologia politica di Carl Schmitt sarà poi ripreso dai nazisti per un attacco a Schmitt nel gennaio 1937 dall’Ufficio di Alfred Rosenberg, preposto alla sorverglianza sull’ortodossia ideologica di ogni funzionario del regime, specialmente se accademico. Hugo Ball è da annoverare fra gli amici più intimi di Carl Schmitt insieme con altri importanti scrittori come Ernst Jünger e Robert Musil. Dalla Biografia di Bendersky: «Per un breve periodo Schmitt intrattenne rapporti amichevoli anche con Hugo Ball che, dadaista, in quel periodo era cattolico. BalI fu così impressionato dalla prima lettura di un lavoro di Schmitt che esclamò: “[. . .] nella sua qualità di pensatore cattolico [questo giurista] è un novello Kant”. All’inizio dell'estate del 1924, quando finalmente ebbe modo di conoscere questo suo ammiratore, tra Schmitt e la famiglia di Ball nacque un rapporto molto stretto: continuarono a scambiarsi lunghe lettere finché, nel 1925, i legami si ruppero a causa di dissapori personali non meglio precisati, anche se all’apice del suo entusiasmo Ball aveva pubblicato un lungo articolo su Hochland, in cui aveva reso omaggio a Schmitt come difensore del cattolicesimo e della civiltà europea» (trad. it., p. 79).

* * *
B.
(Testo originale tedesco.
Traduzione italiana in progress)
Hugo BALL
Carl Schmitts politische Theologie
in:
Hochland, 1924, B. XXII, Juniheft, S. 263-286

Hochland. - Monatschrift für alle Gebiete des Wissens, der Literatur und Kunst, 21. Jg. April 1924 – September 1924, Bd. 2, p. 261-286. Il testo è stato ripubblicato in: Jacob Taubes (Hrsg.), Der Fürst dieser Welt. Carl Schmitt und die Folgen, Ferdinand Schöningh – Wilhelm Fink Verlag, 1983, pp. 100-115.

I.

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Carl Schmitt fa parte di quei pochi intellettuali tedeschi che sanno fronteggiare i rischi professionali di una cattedra dei nostri giorni. Ja ich stehe nicht an zu behaupten, daß er den Typus des neuen deutschen Gelehrten überhaupt erst für sich erobert und inauguriert hat.Wenn die Schriften dieses merkwürdigen Professors (um nicht Konfessors zu sagen) nur dazu dienten, die katholische (universale) Physiognomie ihres Verfassers erkennen und studieren zu lassen, es würde vollauf genügen, ihnen einen überragenden Rang zu sichern. Chesterton sagt einmal in einem schönen Essay „Von den Idealen“, daß unserer verworrenen und argen Zeit zu ihrer Sanierung keineswegs der große Praktiker nottut, nach dem alle Welt verlangt, sondern der große Ideologe. « Ein Praktiker, das ist ein Mensch, eingewohnt in die Alltagspraxis, in die Art, wie die Dinge gemeinhin funktionieren. Wenn aber die Dinge nicht arbeiten, dann braucht man den Denker, den Mann, der sowas wie eine Doktrin hat, warum die Dinge überhaupt funktionieren. Es ist unrecht, zu geigen, während Rom brennt, aber es ist ganz in der Ordnung, die Theorie der Hydraulik zu studieren, während Rom brennt ». Carl Schmitt gehört zu denen, die „die Theorie der Hydraulik studieren“; er ist mit seltener Überzeugung Ideologe; ja man kann sagen, daß er diesem Wort, das unter Deutschen seit Bismarck eine üble Bedeutung hat, wieder zu Ansehen verhelfen wird.

Was bezeichnet den Ideologen? Wie kommt er zustande? Er hat ein persönliches, fast ein privates System, dem er Dauer verleihen möchte. Er gruppiert alle Lebenstatsachen, gruppiert seine ganze Erfahrung um die eine Grundüberzeugung, daß Ideen das Leben beherrschen; daß das Leben niemals nach seinen Bedingungen, sondern nur nach freien, unbedingten, ja bedingenden Einsichten, eben nach Ideen, geordnet und aufgebaut werden kann.  Die Exaltierung und Hartnäckigkeit dieser seiner Überzeugung macht die Größe des Ideologen aus. In einer Zeit, die das Nichts anbetet, indem sie die Ideologie bekämpft oder belächelt, in solcher Zeit wird der Ideologe genötigt sein, seine Basis zu prüfen. Er wird zum Politiker und schließlich zum Theologen werden, ehe er sich's versieht. Man könnte sagen, daß in der engelmacherischen Tendenz unserer Zeit ihre letzte Hoffnung beschlossen liegt. Wie dem auch sei: in Carl Schmitts Werk findet die Ideologie einen ihrer schärfsten und glühendsten Verteidiger. Sein Ausgangspunkt ist das Recht, die Rechtswissenschaft; er ist Professor der Rechte in Bonn. Seine ersten Schriften handeln von „Schuld und Schuldarten“ (1910), von „Gesetz und Urteil" (1912). Doch findet sich schon der Übergang zur politischen Philosophie („Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen“, 1914). Es gibt kein Recht außerhalb des Staates, und es gibt keinen Staat außerhalb des Rechts. Da kann es auch keine Gerechten geben, die nicht den Staat als die nächste Instanz der Idee anerkennen („Politische Romantik“, 1919, Duncker & Humblot, dort auch die späteren Schriften). In den späteren und letzten Schriften erweitert sich die Instanzenfrage zur Frage nach der letzten bestimmenden Autorität und Form, womit die juristische Interpretation einer „Politischen Theologie“ ihren Abschluß erfährt.

II.

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Das nun ist die Eigenart dieses Gelehrten: Das Problem des Ideologen ist ihm nicht nur bewußt; er baut gerade aus diesem Problem, aus diesem Erlebnis sein Werk in allen Bezügen und Folgen auf. In der Gewissensform seiner Begabung erlebt er die Zeit. Das gibt seinen Schriften ihre seltene Konsistenz; das gibt ihnen jene universale Geschlossenheit, in der sie sich präsentieren. Er verfolgt eine angeborene juristische Neigung, um nicht zu sagen seine formale Gesinnung, bis in den letzten bedingenden Grund, mit einer ungewöhnlichen Kraft der Dialektik und ebenso ungewöhnlicher Sprachgewalt. Das Resultat zeigt eine Verflochtenheit der Rechtsfrage mit allen soziologischen und ideologischen Instanzen. Man könnte auch sagen: da ihm die Rechtsidee einmal verliehen ist, sucht er dem Faktum Dauer zu verleihen, erhebt er die ihm verliehene Gabe zu ihrem höchsten erreichbaren Wert. Er möchte die Rechtsidee nicht nur erkennen, sondern womöglich sie repräsentieren, selbst sein. Das ist katholisch, eschatologisch gedacht. Das führt ihn zu den Fragen der Diktatur und Repräsentation, wie sie in seinen letzten Schriften behandelt sind.

Die Tendenz zum Absoluten, die ihn charakterisiert, ist jedoch keineswegs auf Abstrakta gerichtet, wie bei den großen Systembaumeistern des Barock und der Aufklärung, sondern konkret eingestellt.  Sie führt auch in ihrer letzten Konsequenz nicht zu einer alles bedingenden Abstraktion, heiße sie Gott, Form, Autorität oder sonstwie, sondern zum Papste als der absoluten Person, der eine abermals konkrete Welt irrationaler, der logischen Erfassung weiter nicht zugänglicher Personen und Werte repräsentiert. Wie nur irgendein Kantianer geht Schmitt von apriorischen Begriffen, eben von seiner Rechtsideologie aus. Nur begnügt er sich nicht, diese seine Begriffe um ihrer selbst willen zu definieren und miteinander in Beziehung zu setzen. Sein Verfahren ist anders. Er sucht seine Rechtsbegriffe im gegebenen Staate und ferner in der Tradition nach ihren letzten Zusammenhängen, nach ihrer Vergesellschaftung mit allen anderen höheren Kategorien (Philosophie, Kunst, Theologie) progressiv zu ermitteln.

Als Soziologe, dem kein irgendwie belangvolles Detail des näheren oder entfernteren Lebens entgeht, fragt er überall nach der wirklichen Anwendung des Rechts, um so, den Tatsachen folgend, zu ihrer letzten bestimmenden Form zu gelangen.  Er stellt keinen Idealstaat, keine Utopie auf; er läutet kein vorher zurechtgeklügeltes systematisches Glockenspiel. Das Gefüge der letzten Instanzen, das sich ihm schließlich enthüllt, ist ein Organismus, nicht eine Maschine; ein freischwebendes Planetarium, nicht eine oktroyierte Konstruktion. Die völlige Unsentimentalität dieses Werkes erweist sich darin, daß keinerlei Gefühlswerte, nicht einmal die höchsten, als Ausgangspunkt gelten. Die Moral beginnt mit gesicherten Rechsbegriffen; diese freilich umschließen in ihrer Vernunft alle höheren irrationalen Werte. Die Juristik, wie Schmitt sie interpretiert, ist die rationale Präsenzform der Ideen.

III.

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Vergleicht man Schmitts Werk mit dem seiner Vorbilder, so tritt das unterscheidende Merkmal deutlich zutage. Bonald und de Maistre sowohl wie Donoso Cortes gingen aus katholischen Nationen hervor und aus einer Zeit, in der das ideologische Weltbild zwar in den Grundfesten erschüttert, aber nicht zerbrochen und völlig verwüstet war. Ihr Ausgangspunkt ist ein festes legales Gefüge, das bei Bonald und de Maistre in der monarchistischen Restauration, bei Cortes in der gegenreformatorischen Überlieferung seiner spanischen Heimat stark lebendige Stützen findet. Der theologische Staat ist umstritten, aber noch nicht zerstört; er erweist täglich noch seine vitale Kraft. Der Gegensatz von Glaube und Wissen, in wie kritischen Formen immer, beherrscht die Köpfe; hier aber und heute will der verlorene Glaube erst wieder gefunden und erhoben werden. Die Scholastik und ihre rationalistische Nachfolge vermochte Systeme zu bauen, die aus der Allgegenwart eines Axioms geboren, alle Vielfalt der Argumente um eine anerschütterte Achse gesammelt hielten. Seit die Verneinung indessen auch in die Metaphysik eindrang, mit Proudhon und Bakunin, ist das Zentrum der alten Legalität zertrümmert, und es gilt, die Einheit auf neuen Wegen wiederzugewinnen. Der Verzicht auf die Autorität war das Signum der letzten gepriesenen Philosophie unserer Zeit. Die Person selbst ist dieser Philosophie zweifelhaft geworden, zweifelhaft der Sinn und Wert irgendeines Bekennens. Omnipotent ist die Maschinerie; eine dämonische Welt täuscht Leben und Ebenmaß vor, ohne auch nur eine Seele, geschweige denn Geist oder gar eine Hieratik zu haben. Und so glossiert das Genie, als Rebell oder Dandy gekleidet, den dumpfen Bankrott der Kultur und empfindet sich als den Hort alles höheren Lebens.

In seinem Interesse für den Komplex der Romantik opfert auch Schmitt dieser Situation. Das Wesen des Genies reicht in die blinden, antinomistischen, triebhaften Gründe der Natur ebenso wie in die übervernünftige Sphäre der religiösen Welt. Die Loslösung von den Normen einer erstarrten Sozietät gibt den illegalen Instinkten sogar eine gewisse Vernunft.  Der Todfeind der Romantik, als der Schmitt sich gelegentlich erweist, bekämpft in ihr die irrationale Gefahr seines eigenen schöpferischen Fonds, dessen Klärung seine Schriften sämtlich gewidmet scheinen. Der Charakter des Organischen, den diese Schriften zeigen, weist darauf hin. Schmitt ist Theologe und römischer Katholik keineswegs bereits bei seinem ersten Schritte. Sein Werk entfaltet sich unter Schmerzen nicht nur technischer Natur, in einem bunten Nacheinander von grimmiger Diatribe und objektiver Untersuchung, von definierendem Diktat und kunstvoller Apologie. Die Resultate sind schrittweise errungen aus Konsequenzen; ein Neben- und Übereinander der Stimmen begleitet die Konzeption. Eine gewisse Aphoristik weist auf Vereinsamung hin, doch von den Gefahren eines abseitigen Individualismus ist Schmitt durch eine Welt getrennt. Die soziale Natur der Rechtsbegriffe sichert ihm eine stete Verbundenheit mit der Norm, und so tritt klarer und schärfer mit jedem Werk die Grundform hervor, nach der das System sich entfaltet. Der irrationale Fond einer großen Persönlichkeit und ihrer Zeit wird aus den Naturfesseln sowohl wie aus der Ekstase völlig in den Begriff überführt.

IV.

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„Politische Romantik” ist die erste Schrift, mit der Schmitt vor einem Publikum von nicht nur Sachverständigen erschien. Eine ungewöhnliche Formkraft unternimmt den Versuch, die pseudologia phantastica der Romantik auf politische Normen zu reduzieren.  Eine allgemeine Vertauschung und Vermengung der Begriffe, eine schrankenlose Promiskuität der Worte und Werte ist nicht nur für die Romantik bezeichnend; sie ist seit der Romantik zum Allgemeingut der Gebildeten geworden. Eine mystisch-ästhetisch-spiritualistische Gesinnung grassiert, die Tröltsch noch im Jahre 1912 als die heimliche Religion der Gebildeten des modernen protestantischen Deutschland bezeichnen konnte. Schmitts Denkart ist im Gegensatz dazu sehr aufs Unheimliche, Publizistische gerichtet. Er vermag dem allgemeinen Nebelwesen wenig Reiz abzugewinnen. Dort die Ausflucht in allen Formen, hier der strikte Wille zur Überwindung. Dort alle Symptome einer Willenserkrankung, hier eine einschneidende, inquisitorische Intelligenz. Ein Jurist, der Grammatik dozieren könnte, räumt mit den Wirrnissen eines verstiegenen Geniekults auf. Der romantische Proteus gerät in eine Zwangsjacke der Logik. Die romantischen Sprachsurrogate empfangen eine Artikulation, die kaum zu überbieten ist.

Con Emmy Hennings
Das Thema erscheint begrenzt. Nicht der Romantik überhaupt, sondern der politischen Romantik gilt das Pamphlet. Und eigentlich auch nur der deutschen Romantik, und zuletzt nur noch Adam Müller. Um einen Hasen zu jagen, so konnte es scheinen, wird eine ganze Provinz abgesperrt. Auch könnte man finden, Schmitt spreche von etwas, das es gar nicht gibt. Gerade darin aber triumphiert seine Überlegenheit, dieses imagimärste aller Themata logisch einzufangen, mit einer enormen Kunst der Definition, der Unterscheidung, der methodischen Register. Und da ergibt sich, daß Adam Müller vielleicht der künstlichste und spezifischste Vertreter dessen ist, was man die Politik oder Theologie der Romantik zu nennen pflegt. Er verwendet philosophische, ästhetische, politische und theologische Argumente in großer Zahl und in einer Weise, die alle einzelnen Disziplinen mit Ausnahme der Rhetorik kompromittiert. Von den Betroffenen interessieren Schmitt zumeist die politisch-theologischen Konstrukteure jener Zeit, die katholischen Staatstheologen der Restauration. Nietzsche bei Beginn seiner Karriere griff sich den „Bildungsphilister" David Strauß, in dem er die kritizistische Plattitüde seiner Zeit abschlachtete. Schmitt greift sich den „Staatstheologen" Adam Müller, in dem er die genialische Hypokrisie des Liberalismus zu Tode hetzt. Die Stringenz des Stils aber ist es nicht allein, was diese Broschüre inmitten der Verschwommenheit einer neuteutschen Literatur zu einem Unikum macht.

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Über das romantische Thema weit hinaus interessiert die persönliche Fragestellung des Verfassers, der ideengeschichtliche Aufriß, den er gibt, die Prospekte, die er in Bewegung setzt, der Abgrund, in den die romantische Herrlichkeit klirrend versinkt. Adam Müller, den man vor kurzem noch einen einsamen politischen Denker nannte, löst sich wie eine Seifenblase in bunten Schein auf. Der Windzug aber, der dies bewirkt, deutet auf eine Gewitterwolke. Die „Unvereinbarkeit der Romantik mit irgendeinem moralischen, rechtlichen oder politischen Maßstab“ mag keine neue Entdeckung sein; vielleicht ist sie es doch. Der Maßstab selbst aber, den Schmitt anlegt, ist in seinen Bestandteilen durchaus neu und von höchstem Interesse. Die politischen Angriffspunkte, die die Romantik bietet, führen nach rückwärts bis zu Malebranche und Descartes, nach vorwärts bis in die Gegenwart. Die Erfassung dieses beträchtlichen Komplexes muß über die innere Physiognomie des 18., 19. Und des beginnenden 20. Jahrhunderts die wichtigsten Aufschlüsse bieten.

V.

Die Romantiker, sagt Schmitt, versprachen eine neue Religion, ein neues Evangelium, eine neue Genialität. Von ihren Manifestationen in der gewöhnlichen Wirklichkeit aber gehörte kaum etwas vor ein Forum externum. Adam Müller insonderheit will das gescheiterte Unternehmen der französischen Revolution wieder aufnehmen und zu Ende führen, den Worten Religion, Philosophie, Natur und Kunst einen neuen Inhalt geben. Die Schranken der bisherigen mechanischen Zeit sollen gesprengt, die weltfremden Spekulationen der geistigen Revolution auf den Boden der Wirklichkeit verpflanzt werden.  Müller bezieht sich dabei auf Burke, Bonald und Maistre, die gegen die französische Revolution in originaler Weise Partei ergriffen. Er selbst findet indessen kein unmittelbares moralisches, sondern nur ein sensualistisches Pathos. Sein Buch über die „Notwendigkeit einer theologischen Grundlage der gesamten Staatswissenschaften“ gelangt über die Kunstfiguren einer leeren Oratorik, über ein Spiel mit fremdem Eigentum, über eine lyrische Staatsphilosophie nicht hinaus. Die wichtigste Quelle politischer Vitalität, der Glaube an das Recht und die Empörung über ein Unrecht, existiert für ihn nicht. In seiner ästhetischen Einstellung, wie in der willkürlichen und normwidrigen Art zu argumentieren, liegt „der Unterschied von allem politischen Irrationalismus, der in seinen Grundlagen mystischen oder religiösen Ursprungs ist, und bei dem das Gewebe von Beweisgründen, auf die auch er nicht verzichten kann, Emanation politischer Aktivität ist“.

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Politischer Irrationalismus: da hat man das für die Romantik und auch für Schmitt entscheidende Wort. Mit Descartes beginnt die Erschütterung des alten ontologischen Denkens und die Verweisung der Realität an einen subjektiven und internen Vorgang, an das Denken, statt an die Gegenstände der Außenwelt. Die moderne Philosophie ist von einem Zwiespalt zwischen Denken und Sein, Begriff und Wirklichkeit, Geist und Natur, Subjekt und Objekt beherrscht, den auch die transzendente Lösung Kants nicht behoben hat; „sie gab dem denkenden Geist die Reälität der Außenwelt nicht wieder, weil für sie die Objektivität des Denkens darin besteht, Daß es sich in objektiv gültigen Formen bewegt und das Wesen der empirischen Wirklichkeit, das Ding an sich, gar nicht erfaßt werden soll“. Bald im subjektiven Denken, bald in der empirischen Wirklichkeit wird von nun an die Irrationalität, die Unerklärlichkeit, das Geheimnis des Daseins gesucht. Von dieser human-materiellen Herabstimmung des alten theologischen Problems datiert alle Verwirrung. Fichte sucht den Zwiespalt durch ein absolutes Ich zu beseitigen, die Romantik will denselben Konflikt durch die gemachte und bewußte Heteronomie des Genies beheben. „Die höchste und sicherste Realität der alten Metaphysik", sagt Schmitt, „der transzendente Gott, war beseitigt. Wichtiger aber als der Streit der Philosophen war die Frage, wer seine Funktionen als höchste und sicherste Realität und damit als Legitimationspunkt in der historischen Wirklichkeit übernahm“. Zwei neue, diesseitige Realitäten treten auf und setzen eine neue Ontologie durch. Völlig irrational, wenn man sie mit der Logik des achtzehnten Jahrhunderts betrachtet, aber objektiv und evident in ihrer Überindividuellen Geltung, beherrschen sie in realitate das Denken der Menschheit als die beiden neuen Demiurgen. Der eine, der revolutionäre Demiurg, ist die Gemeinschaft, deren verschiedene Gestalten als Volk, Gesellschaft, Menschheit wirksam werden. Seine Allmacht wurde im Contrat social von Rousseau proklamiert. Der andere, konservative Demiurg ist die Geschichte. Die Romantik sucht den Demiurgen irrationale Bedeutung abzugewinnen.

Mit unbegrenzten Versprechungen einer neuen Schöpfung war sie aufgetreten, mit ungeheuren Möglichkeiten, die sie der Wirksamkeit jener zwei neuen Realitäten entgegenzusetzen gedachte.  Der Romantiker sucht die Rolle des weltproduzierenden Ich zu behaupten; er gerät jedoch in Widersprüche, die aus dem Vorhandensein zweier von seinem Willen unabhängigen und seinem Subjekt überlegenen Realitäten entstehen. Er beginnt die nichtobjektivierte Möglichkeit als die höhere Kategorie auszuspielen; sucht aller rationalen Argumente sich zu entschlagen. In einer Flucht von Antithesen schafft er sich unermüdlich ein neues Alibi. Man will die Irrationalität der Person retten, auch die Irrationalität der Zeit, verfällt aber hier einem sentimentalen Pointilismus des Augenblicks, und dort den Illusionen einer erträumten Primitivität. Bald ist es der einfache Landmann, bald das „indeterminierte Kind“, bald das paradiesische Idyll der Natur, die zu Trägern des Numinosen werden. Erst in der Kirche, nach dem Verzicht auf alle Subjektivität, findet der Romantiker, was er sucht: »eine große irrationale Gemeinschaft, eine weltgeschichtliche Tradition und den persönlichen Gott der alten Metaphysik«. Damit aber hörte man auf, Romantiker zu sein.

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Der Versuch, die rationale Mechanik der Zeit zu sprengen, mißlang aus zwei Gründen. Einmal weil die Romantik auf die entscheidende Stellungnahme im Kampf der Meinungen verzichtete, sodann weil sie glaubte, die Weltschöpferrolle auch gegen die Wirklichkeit behaupten zu können. Und so lautet das Endurteil: Kein Argument hilft darüber hinweg, „daß einer, der argumentiert, sich eines rationalen und nicht eines irrationalen Vermögens bedient. Mochte auch von intellektueller Anschauung, von genialem Aufschwung, oder irgendeinem ändern intuitiven Vorgang gesprochen werden, mittels dessen besondere, dem bloßen Verstande nicht zugängliche Einsichten gewonnen werden sollten: solange ein philosophisches System prätendiert wurde, war der Widerspruch innerhalb des Systems nicht zu überwinden; solange aber more romantico Fragmente und Aphorismen die Resultate der intuitiven Tätigkeit vermitteln sollten, lag nur ein Appell an die gleichgesinnte Tätigkeit gleichgesinnter Seelen, also nur die romantische Gemeinschaft vor. Das Ziel alles philosophischen Bemühens, das Irrationale philosophisch zu erreichen, war nicht erreicht; in einer besonderen Form hatte die neue Realität, die societas, den Romantiker überwunden und gezwungen, an sie zu appellieren“.

VI.

Ich möchte gleich hier den Zusammenhang mit der „Politischen Theologie“ von 1922 aufzeigen. Die beiden Bücher verhalten sich zueinander wie etwa die „Kritik der reinen Vernunft“ sich zur „Kritik der praktischen Vernunft“ verhält, und nicht nur, weil der Titel Kongruenzen aufweisen. Letzten Endes war die ganze Untersuchung in „Politische Romantik“ unternommen, um die großen politischen Theologen Burke, Bonald und de Maistre vor einer ferneren Verwechslung mit Talmipolitikern und Adapteuren wie Adam Müller und Fr. Schlegel zu schützen. Im vierten Kapitel der »Politischen Theologie« knüpft Schmitt ausdrücklich an Resultate des Romantikbuches wieder an, und zwar behandelt er nun ergänzend die Systeme der Bonald, de Maistre und Donoso Cortes. Von den beiden ersteren war bereits in „Politische Romantik“ vielfach die Rede, wo es galt, ihr besonderes, die Romantik desavouierendes Verhalten zum Problem der Realität hervorzukehren. An den Experimenten der Romantik dagegen war gezeigt, wie man es nicht machen darf, wenn man das Irrationale, die Freiheit, das Numinose sichern und repräsentieren will. Die Kirche erschien als die einzige Lösung der romantischen Versuche. Die „Politische Theologie“ ist also die Konsequenz des Weges, den die Romantik selbst einschlug. Die juristischen Definitionen dieses Buches, auf die ich noch zurückkomme, dienen der Lösung jener Konflikte, an deren Widersprüchen die Romantik scheiterte; und die katholischen Staatstheologen, deren Leistung nunmehr erörtert wird, verhalten sich zu den politischen Romantikern, wie sich das praktische Beispiel einer Verwirklichung zum theoretischen, aber mißlungenen Versuch verhält.

Pag. 270
Das sind thematische Vergleichspunkte. Was die beiden Schriften dialektisch verbindet, ist folgendes: Bei der Analyse der romantischen Realitätsbegriffe ergab sich die eminente Wichtigkeit des Begriffs der Entscheidung. Romantiker sind Leute, die sich im Tatsachenbereich nicht entscheiden wollen, ja die aus der Unentschiedenheit eine Philosophie des Irrrationalen machen. Jene katholischen Staatstheologen dagegen, „die man in Deutschland Romantiker nennt, weil sie konservativ oder reaktionär waren und mittelakerliche Zustände idealisierten“, de Maistre, Bonald, Donoso Cortes, bauen ihre Systeme geradezu auf dem Begriff der Entscheidung auf, und wer weiß, die Entscheidung enthält vielleicht das Problem der Form überhaupt. Den deutschen Romantikern ist eine originelle Vorstellung eigentümlich: das ewige Gespräch. Überall dagegen, wo die katholische Philosophie des neunzehnten Jahrhunderts sich in geistiger Aktivität äußert, „spricht sie in irgendeiner Form den Gedanken aus, daß eine große Alternative sich aufdrängt, die keine Vermittlung mehr zuläßt. Alle formulieren ein großes Entweder-Oder, dessen Rigorosität eher nach Diktatur klingt, als nach einem ewigen Gespräch“.

Bonald, der Begründer des Traditionalismus, ist weit entfernt von der Idee eines ewigen, sich von selbst entwickelnden Werdens. Niemals wird bei ihm der Glaube an die Tradition etwas wie Schellings Naturphilosophie, Adam Müllers Mischung der Gegensätze oder Hegels Geschichtsglaube. Die Menschheit ist ihm eine Herde von Blinden, geführt von einem Blinden, der sich an einem Stocke weitertastet; die Tradition bietet die einzige Möglichkeit, denjenigen Inhalt zu finden, den der metaphysische Glaube des Menschen akzeptieren kann.  Die Antithesen und Distinktionen, die ihm den Namen eines Scholastikers eintrugen, stellen moralische Disjunktionen dar, keineswegs Polaritäten der Schellingschen Naturphilosophie, die einen „Indifferenzpunkt" haben, oder bloße dialektische Negationen des Geschichtsprozesses. Er fühlt sich stets zwischen zwei Abgründen, zwischen dem Wesen und dem Nichts. Das aber sind die Gegensätze von Gut und Böse, Gott und Teufel, zwischen denen (nach Schmitt), „auf Leben und Tod ein Entweder-Oder besteht“. — Für de Maistre liegt der Wert der Kirche darin, daß sie letzte inappellable Entscheidung ist. Die Worte Unfehlbarkeit und Souveränität sind ihm „parfaitement synonymes“. Er erklärt die Obrigkeit für gut, wenn sie nur besteht; wesentlich ist, daß keine höhere Instanz die Entscheidung überprüft. — Bei Cortes vollends ist das typische Bild die Entscheidungsschlacht, die zwischen dem Katholizismus und dem atheistischen Sozialismus entbrannt ist. Es liegt nach Cortes im Wesen des bürgerlichen Liberalismus, sich in diesem Kampf nicht zu entscheiden, sondern statt dessen eine Diskussion anzuknüpfen. Cortes definiert die Bourgeoisie (Schmitt: die Romantik) geradezu als eine „diskutierende Klasse“, una clasa discutidora. „Damit ist sie gerichtet“, fügt der Interpret hinzu, und man versteht jetzt, weshalb er sich in „Politische Romantik“ die Eruierung der romantisch-liberalistischen Philosophie so angelegen sein ließ.

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Gibt es überhaupt eine Wirklichkeit ohne Entscheidung? Ist die Wirklichkeit anders zu erfassen als durch Analyse und Urteil? Der Romantiker hatte die Selbstbespiegelung an Stelle der Objektivierung gesetzt. Weder Kosmos, Glaube, Volk, Geschichte interessierten ihn um ihrer selbst willen. Der Staat als romantisches Objekt, das entspricht der romantisch-liberalistischen Ansicht der Dinge. Gleichwohl vermag auch der zerblasenste Romantiker die Entscheidung nicht zu umgehen. Vor die Alternative gestellt, muß auch er sich entscheiden. Er entscheidet sich für das »höhere Dritte«, für eine Synthese, die beide Gegensatzglieder anerkennt und sie in einer fingierten Überlegenheit zu einem Kompromiß führt. Es ist die furchtbare, durch Hegel populär gewordene Methode des Kompromisses von Gut und Böse, von Ja und Nein, die zum Grundübel des neunzehnten Jahr-hunderts wurde; eine Methode, von der Ernest Hello in seinem großmütigen Buche „Philosophie et Atheisme“ folgendermaßen sprach? „Si, en effet, l’affirmation et la négation sont identiques, toutes les doctrines deviennent égales et indifferentes. Voilà l’erreur radicale, fondamentale, immense de ce siêcle-ci; voilà la negation mêre; voilà ce doute absolu, qui est l’absence même de philosophie, érigé en philosophie absolue“.

Hochland Pag. 272 bis
In II, 2 der „Politischen Romantik“ geht Schmitt der metaphysischen Herkunft dieser „synthetischen“ Entscheidungsform nach und gelangt so zur Feststellung der »okkasionalistischen Struktur« der Romantik. Descartes ist die oberste Instanz dieser Denkart. Von dem Argument ausgehend, daß ich bin, weil ich denke, unterschied er Innen und Außen, Seele und Leib, res cogitans und res externa. Daraus ergab sich die Aufgabe, den Gegensatz in Einklang zu bringen, oder die Wechselwirkung von Leib und Seele zu erklären.  Die okkasionalistische Lösung, die in den Systemen von Geraud de Cordemoy, Geulinx und Malebranche unternommen wurde, bestand im wesentlichen darin, daß Gott als der höhere Dritte die Synthese der seelischen und körperlichen Äußerungen darstellt: alle irdische, endliche Wirklichkeit ist nur eine Okkasion, ein Anlaß für die allein wesentliche göttliche Wirksamkeit. In der Romantik nun tritt an Stelle Gottes das geniale Subjekt, das die äußere Welt analog als Okkasion seiner überlegenen synthetischen Produktivität auffaßt. Der Gegensatz der Geschlechter wird aufgehoben im „Gesamtmenschen“; der Gegensatz der Parteien und Individuen im „höheren“ Organismus, im Staate oder im Volk; der Zwiespalt der Staaten in der höheren Organisation, der Kirche. Was die Kraft hat, den Gegensatz nicht zu lösen, sondern zu lahmen, gilt als die wahre und höhere Realität. So beginnt Adam Müller mit einer Lehre vom Gegensatz, die eine absolute Identität ausdrücklich ablehnt und als letztes Prinzip eine Art „antitherischer Synthese“, ; eben den Gegensatz proklamiert. Schlegel stellte Malebranche noch über Descartes, Müller folgte ihm darin und Novalis erwähnt den Okkasionalismus häufig in seinen Fragmenten. Das Ziel war, über den toten, mechanischen Rationalismus des achtzehnten Jahrhunderts hinwegzukommen. Die politische und kulturelle Gefahr dieser Philosophie aber setzte dort ein, wo man begann, auch den Gegensatz von Legitimismus und Liberalismus nur durch Gott schlichten zu lassen, statt Partei zu nehmen. Da das Wesen der Dinge immer in einer anderen Sphäre gesucht wird, als der sie angehören, gerät die Spekulation in ein stetiges Voltigieren von einem Gebiet auf das andere. Das Schlimmste dabei ist, daß der Romantiker sich die Identität mit dem Schöpfer vorbehält; ohne sie auszuhalten. Eine fatale Abneigung gegen alle persönliche Aktivität führt zu einer Theologie, in der die Persönlichkeit Gottes selbst aufgehoben, und zu einer Politik, in der die Überzeugung gleichgültig ist.

VII.

Pag. 272
Der künstliche Irrationalismus der Romantik steht im Widerspruche zur Wirklichkeit; diese letztere aber ist nach Schmitts klarer Lehre identisch mit der Entscheidung. Wie verhält sich nun eben die Entscheidung, die Wirklichkeit, zur nicht fingierten, sondern wahren Irrationalität? Wie verhält sich die Jurisprudenz zur höchsten Instanz? Indem Schmitt die beiden neuen Realitäten (Gemeinschaft und Geschichte) für Demiurgen erklärt, stempelt er sie zu blinden, unvernünftigen, eitlen Schöpfern, zu dämonischen Größen. Ihre Herrschaft beruht, wenn man das Wort im gnostischen Sinne nimmt, in einer Vermengung von übersinnlichen und materiellen Gewalten; in einem finsteren Trug, der in seinen Auswirkungen zu Katastrophen führen muß und geführt hat. Auch Schmitt folgt bei der Ermittlung des Irrationalen den Entwicklungen der Gemeinschaft und der Geschichte, aber sie dienen ihm nur als Substrat der Entscheidung. Weit entfernt, an eine Vernunft der materiellen Geschichtsprozesse, oder gar an eine immanente Entwicklung zu immer höheren Formen zu glauben, vermag er weder dem Hegelschen Weltgeist, noch den marxistischen Wirtschaftsgesetzen einen sonderlichen Respekt entgegenzubringen; er sieht in derlei Geschichts- und Gesellschaftsdoktrinen nur Häresien, die nicht aufhören, ihrerseits Objekte einer entwicklungsgeschichtlichen Betrachtung zu bleiben. Der Mensch als „Instrument der im dialektischen Prozeß sich entwickelnden Vernunft“ ist nicht seine Sache. Er sucht die metaphysische Freiheit, die mit der metaphysischen Realität identisch ist.

In seinem Buche „Die Diktatur“ (1921), das den politischen Begriff der ratio entwickelt, vermag er so wenig an eine im Geschichtsverlauf hervortretende kontinuierliche Vernunft zu glauben,  daß er die französische Revolution vor der englischen, und den pouvoir constituant vor der Diktatur Cromwells behandelt. Und noch entscheidender: diese mit Vernunftkategorien kaum zu erfassende Cromwellsche Diktatur erscheint ihm, allen rationalistischen Systemen zum Trotz, als die höhere, eigentliche Vernunft. Um die gottgewollte Abhängigkeit von den Tatsachen ist es in diesem Systeme schlecht bestellt. Eher scheint darin ein spontanes Hervortreten des Göttlichen im Chaos der Geschichte, scheint das politische Wunder gelehrt zu werden: die Durchbrechung der Naturgesetze durch die souveräne Person. Das führt zum Gegensätze von ratio und irrational, der in den verschiedensten Formen Schmitts Werk beherrscht.

VIII.

Pag. 273
Diese Antithese hat in neuplatonischer Zeit zuerst jene grundlegende Erörterung erfahren, die die kirchliche Auffassung von der antiken in wichtigen Punkten trennt. Vernunft und Unvernunft sind bei Proklus und Dionysius Areopagita nahezu identisch mit dem Gegensätze von Gut und Böse, Gott und Dämon, Schöpfer und Demiurg. Gut ist die hohe Vernunft; übel ist, was der Vernunft widerstreitet: das Geistlose, Ungeordnete, das Verharren im Materiellen; ein distanzloses Sichverhalten zur Zeit und Umgebung. Dem Begriffe „malum“ haftet indessen in jener eschatologisch orientierten Zeit keinerlei verdammende, moralistische Bewertung an. Das „Übel“ ist nur ein minderer Zustand der Natur, ein Defekt, ein Mangel an Einsicht, Kraft, Aufschwung; eine Verwirrung des Willens, ein Nochbewegtsein von physischen Leidenschaften. So ist der Gegensatz von ratio und irrational in jener frühen Zeit auch der Gegensatz von Ruhe und Bewegung, von Dauer und Zeit, von Unsterblichkeit und Tod, von absolut und bedingt. In dieser Gestalt geht die Antithese von Dionysius zu Thomas von Aquin und Albertus Magnus über. Aber schon in vorscholastischer Zeit scheint in der Praxis, wenn auch nicht in der Theorie, die moralistische Interpretation des Begriffes vom Übel gesiegt zu haben. (Einwirkung der augustinischen Tradition.) Während man nach orientalischer Auffassung böse war, wenn man an den Tod glaubte, statt an Christus, ist man nach neuerer Auffassung böse, wenn man sich den Diktaten eines längst nicht mehr kirchlichen Rationalismus entzieht.

Die klassischen Staatsphilosophen von Macchiavelli und Hobbes bis zu de Maistre und Cortes sehen im nichtrepräsentierten Volk noch immer mit den Augen eines Thomas von Aquin ein irrationales Wesen, das durch die ratio beherrscht und von ihr geführt werden muß; nur eben machten sie die Antithese auch dann noch geltend, als die ratio der Herrscher und Verfassungen längst von Privatinteressen der regierenden Häuser und Klassen geleitet war. Es ist aus zweierlei Gründen wichtig, dies zu betonen.  Einmal weil sich leicht dartun ließe, daß mit der moralistischen Vergröberung des Begriffes malum auch die Höhe der Vernunftdiktatur und der ratio selbst sank; sodann weil für Schmitt im Anschlusse an Cortes die Antithese eine dogmatisch und auch politisch nicht unbedenkliche Schärfe gewinnt. Die Überzeugung, daß der Mensch von Natur böse, verworfen, Bestie, Pöbel ist (statt hinfällig, unwissend, schwach und emanzipationsbedürftig), diese Auffassung gilt dem konstruierenden Staatskünstler der Renaissance und des anschließenden Absolutismus als Begründung dafür, daß er die zu organisierende Menschenmenge als ein zu bevormundendes, bösartiges Material ansieht, dem gegenüber alle Mittel erlaubt sind. Und umgekehrt antwortete die innerstaatliche Opposition damit, daß sie die prätendierte Diktatur der rationalistischen Staatshäupter und Verfassungen erbittert bekämpft und vice versa dem Volk eine instinktive Güte, Vernunft, Ordnung, und schließlich das Recht zur eigenen Diktatur erteilt.

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Schmitts Auffassung ist die lateinische. Noch entschiedener wie Donald und de Maistre trennt er die „irrationalen“ Elemente (Nation und Geschichte) von der Vernunft. Er richtet sich sogar gegen den quasirationalistischen Staat, gegen den aufgeklärten Legalismus, den er seines Abfalls von der theologischen Autorität wegen, als Ausnahmezustand definiert. Nur in einem Punkte bleibt er befangen: die moralistischen Thesen über die Natur des Menschen (ob von Natur böse, oder von Natur gut) werden ihm in all ihrem fragwürdigen Extrem zum Kriterium einer ihm begegnenden Staatslehre. Halten Mably, Rousseau und die Anarchisten von Babeuf bis Krapotkin den Menschen, das Volk, das Proletariat und sogar das „Lumpenproletariat“ für natürlich gut, ja für das Heil der Welt, und sind sie deshalb Irrarionalisten, so erklären alle rationalen Geister, und besonders die katholischen Staatsphilosophen, den Menschen mit steigender Heftigkeit für blind, konfus, verworfen und verächtlich. Gegen Schluß der „Politischen Theologie”, wo Schmitt die gegenrevolutionäre Idee des Donoso Cortes entwickelt, tritt der Gegensatz der Axiome im Gegensatz von Cortes und Proudhon in flagranter weise hervor. Die Opposition hat den Satanismus auf ihre Fahne geschrieben; sie kämpft mit der These „der Mensch ist gut“ für die Zerstörung der Ideologie. Die Ideologen, und Cortes insonderheit, kämpfen mit dem Axiom „der Mensch ist schlimmer als ein Reptil“ unter der Fahne Gottes für die Metaphysik.

Die Lehre von der Verworfenheit des Menschen kann in der apodiktischen Form, in der Cortes sie vertritt, kaum überboten werden.  Seine Verachtung der Menschen kennt keine Grenzen mehr; ihr blinder Verstand, ihr schwächlicher Wille, der lächerliche Clan ihrer fleischlichen Begierden scheinen ihm so erbärmlich, daß alle Worte aller menschlichen Sprachen niAt ausreichen, um die ganze Niedrigkeit dieser Kreatur auszudrücken. Schmitt betont zwar, und dies gilt auch pro domo, daß Cortes hier nicht δογματικως, sondern αντιθετικως; verstanden sein will, aus der Konsequenz seines Widerstandes gegen die Zeit. Aber er gibt zu, daß der legale Despotismus die Erbitterung der Opposition erst hervorruft. Er erwähnt auch die konziliantere Auffassung des Tridentinums, (der eine emanzipierende, nicht eine zerschmetternde Politik entsprechen würde). Wenn der Verfasser aber in seinen späteren Schriften die Überzeugung von der natürlichen Güte des Menschen kurzweg als eine „anarchistische Lehre“ behandelt, ist dies eine Abkürzung, die der formalen Strenge ein Stück von der milderen Wahrheit opfert. Er vermag nunmehr auch anarchistisch und irrational zu identifizieren. Dostojewskys Naturheilige bekommen einen Dynamitgeruch und Sorels irrationaler Reformvorschlag erscheint, der kirchlichen ratio gegenüber, lächerlich.

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Die Auseinandersetzung mit Sorel (in „Römischer Katholizismus und Politische Form“) nimmt einen für Schmitts knappe Maße beträchtlichen Raum ein. Georges Sorel wollte in einer neuen Verbindung der Kirche mit dem „Irrationalismus“ die Krise des katholischen Gedankens sehen. Als „irrational“ gilt hier wieder das Volk, und zwar das Volk der Syndikate, das rebellische Proletariat, dem Sorel eine „force creatrice“ zuschreibt. Man könnte nach Cortes und Schmitt der Kirche ebenso gut ein Bündnis mit dem Teufel selbst vorschlagen. Schmitts Darlegungen an der betreffenden Stelle sind sehr erhellend. Er räumt ein, daß im 19. Jahrhundert alle möglichen Arten einer Opposition gegen Aufklärung und Rationalismus die Kirche neu beleben. Er erwähnt die Konvertiten aus traditionalistischen, mystizistischen und romantischen Tendenzen; auch eine gewisse innerkirchliche Unzufriedenheit mit der hergebrachten Apologetik, die von manchen als Scheinargumemation empfunden werde. Eine wesentliche Bedeutung vermag er indessen der irrationalen Opposition nicht zuzugestehen, weil die Vertreter dieser Bewegung vom naturwissenschaftlichen Rationalismus ausgehen und übersehen, daß der katholischen Argumentation eine besondere an der normativen Leitung des sozialen Lebens interessierte, mit spezifisch juristischer Logik demonstrierende Denkweise zugrunde liegt. Der Irrationalismus mag den abstrakten Staat und das mechanistische Weltbild, er mag die „mathematische Mythologie“ bekämpfen; die kirchliche ratio wird davon nicht berührt.

IX.

Das Irrationale aber kann beide Bedeutungen haben: unvernünftig und übervernünftig. Im Staate bezieht sich der Gegensatz von ratio und irrational stets auf die Ordnung einer unberechenbaren und deshalb mit großer Vorsicht zu behandelnden Staatsmaterie, auf die Masse des Volkes, die ihrer Art von Eingebungen, nämlich spontanen Willensimpulsen von meist materieller Herkunft und Absicht unterliegt.  In der Theologie deutet der Gegensatz auf das Verhältnis des Legalen und Institutionellen zu den Eingebungen einer überlegenen, schöpferischen, geistigen Art, auf das Verhältnis zum Numinosen, zum Heiligen und Wunderbaren, zur Offenbarung. Die gnostischen und neuplatonischen Systeme kennen mancherlei Vermittlungsstufen, die den übervernünftigen Urgrund mit den rationalen Kategorien, den Stufen der Hierarchie verbinden. Bei Dionysius Areopagita ist Gott die Ursonne, die alle Stufenreihen der Wesen bis herab zu den materiellsten nicht verpflichtend und logisch, sondern liebend und irrational in ihren Bannkreis zieht, um sie zu durchdringen. Die Engel, die das „Gesetz“ dieser Durchdringung verkünden, die also die ratio der Gebote geben, stehen in einem deduzierenden Verhältnis, in einer Distanz zum Urgrund, und auch sonst ist in diesem theologisch-philosophischen System, das die Scholastik und überhaupt das mittelalterliche Denken unabsehbar beeinflußt hat, das Heiligenreich in der Ekstase, das heißt übervernünftig, irrational begründet. Die inspirierte und offenbarende, die sakramentale und kanonische Welt, die Kirche eben und gerade auch ihre hierarchische Konstitution stellen einen übernatürlichen und übervernünftigen Organismus dar. Rational wird diese Welt mir in der Interpretation; in ihrem Verhältnis zum zeitlichen, materiellen Status, der der Vernunft entbehrt. Das sacrificium intellectus, das die Kirche ihren Dogmen, Wundern und Sakramenten gegenüber verlangt, bezeichnet den Punkt, wo jederzeit die Inferiorität der rationalen Belange gegenüber dem Unbegreiflichen postuliert erscheint.

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Dies vorausgeschickt, sehe ich mit Schmitt im Verhältnis der Kirche zum „Staat“ ihre Rarionalität und möchte ich Schmitt selbst als einen Rationalisten in der staatlichen, als Irrationalisten aber in der theologischen Reihe bezeichnen, wobei ich, ohne dem Folgenden vorzugreifen, hinzufügen kann, daß Schmitt jene rationale Kraft, mit der er den pseudo-rationalistischen Staat analysiert und begreift, eben von der irrationalen Größe der Kirche und ihren juristischen Normen bezieht. Einen Widerspruch der Schmittschen Schriften könnte man freilich darin finden, daß die theologische Form des Systems nicht von Anfang an da ist, nicht aus einem festgegründeten Glauben, sondern aus Konsequenzen entsteht; daß der Glaube und die Theologie seines Werkes in energischen Folgerungen zwar und mit raschen Schritten, aber immerhin doch erst im Verlaufe seines Schaffens errungen werden. Die ersten Schriften scheinen außerhalb der Kirche entstanden oder wenigstens konzipiert zu sein. Jene eigentümliche Heuristik des Stils, die man in seiner soziologischen Methode finden kann, weist darauf hin. Eine weitgehende Verachtung der traditionellen Legalität ist im Ursprunge zwar ebenfalls „irrational“, aber im Sinne des Organischen und des Genies. Daraus entspringt die Schwierigkeit, ihn zu systematisieren, eine Schwierigkeit, die erst mit den beiden letzten Schriften, »Politische Theologie« und „Römischer Katholizismus und Politische Form“ verschwindet.

„Die Diktatur“ (1921) ist diejenige von Schmitts Schriften, die den Autor zur Kenntnis seines Problems und zur Freiheit führt. Hier, bei dem Versuch, die Rechtsformen der reformatio zu erfassen, stößt Schmitt auf Entdeckungen, die für seine folgenden Schriften ebenso wie für seine Theologie entscheidend werden.  Der quasi-rationalistische Naturstaat seit Macchiavelli erscheint als eine Revolte gegen den plein pouvoir des religiösen Souveräns, als ein Ausnahmezustand. Bei einer unter die Anmerkungen verwiesenen Feststellung des Gesetzesbegriffs von Thomas v. Aquin bis Montesquieu und Kant begegnet immer wieder, in den verschiedensten Staatsverfassungen und Doktrinen, das Wort „Diktatur“. Gesetz ist nach Thomas von Aquin ein „dictamen practicae rationis“. Hobbes spricht von „dictata rectae rationis“. Nach Locke geschieht im Staate, was „calm reason and conscience dictate“. Die Erklärung der Menschenrechte von Massachusetts (1780) führt in Artikel II den Begriff „dictates of his own conscience“. New Hamphire bekennt sich zu dem unveräußerlichen Recht, Gott zu verehren „according to the dictates of his own conscience and reason“, und noch Kant spricht von „dictamina rationis“. Regieren heißt während der ganzen absolutistischen und jakobinischen Periode eine „Vernunftdiktatur“ gegenüber der „incondita et confusa turba“ errichten oder aufrechterhalten. Der Diktator selbst, mag er als Kommissar oder aus eigener Machtvollkommenheit auftreten, immer charakterisiert ihn, daß eine fremde oder seine eigene Souveränität ihm den Auftrag erteilt zur Reform, zur Wiederherstellung gesetzlicher Zustände nach einem Chaos, in das der Staat geraten war.

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Eine gewisse Verwirrung ist in diesem umfangreichsten Buche Schmitts nicht zu verkennen, und es ist interessant genug, ihren Grund zu ermitteln. Die Rechtsformen der reformatio sollen erfaßt werden, aber es ergibt sich dabei, daß die reformatio einen absoluten Souverän, den Papst als Auftraggeber voraussetzt, und daß, was man gemeinhin die Reformation nennt, als eine Revolte gegen den religiösen Souverän rechtlich gar nicht zu begründen ist. Ein Gegensatz von kommissarischer und souveräner Diktatur wird eingeführt, aber er ist in der Form, in der Schmitt ihn vorträgt, unhaltbar. Er läßt nur den Punkt erkennen, an dem der Verfasser sich vom natürlichen Irrationale zum theologischen wendet. Der vom Papste ernannte Diktator des Mittelalters ist Aktionskommissar. Er suspendiert die bestehenden Rechte, um den zerrütteten Rechtszustand, den Staat wiederherzustellen. Insofern die Wiederherstellung, die reformatio nun im Mittelalter und auch noch in späterer Zeit, stets von einem konstituierten Organ ausging, vom Papste oder vom Fürsten, könnte man das Kommissariat als eine rationale Diktatur bezeichnen. Eine irrationale Diktatur aber läge dann vor, wenn, nach Schmitts Definition, „auch jemand, der kein konstituiertes Amt hat und nur a deo excitatus ist, die bestehende Ordnung beseitigt“, so daß eine Auflösung aller sozialen Form zum Zwecke ihrer höheren Wiederherstellung zu erkennen ist. Nur fragt es sich dabei, in welchem Sinne diese Diktatur irrational ist, ob im politischen oder im theologischen, und mit einem Wort, ob und inwiefern es eine irrationale Politik überhaupt geben kann.

Der homo a deo excitatus, auf den Schmitt abzielt, ist eine den Schriften der protestantischen Monarchomachen wohlbekannte Figur; gleichwohl macht Schmitt nur ein Beispiel für diese Art individueller Souveränität innerhalb der neueren Staatswesen namhaft: Cromwell.  „Die puritanische Revolution war das auffälligste Beispiel einer Durchbrechung der Kontinuität bestehender staatlicher Ordnung.“ War nun Cromwell ein souveräner Diktator, ganz aus der Freiheit geboren, oder war er ein Usurpator, der, wenn er sich auch auf Gott bezog, Soldaten hinter sich wußte, auf die er sich stützte? Zunächst die Kennzeichen der Souveränität, die Schmitt in „Politische Theologie“ (1922) aufzählt. „Souverän ist, wer die Befugnis hat, das geltende Gesetz aufzuheben.“ „Souverän ist, wer über den Ausnahmezustand entscheidet.“ Der Ausnahmezustand besteht „in einer Suspendierung der gesamten bestehenden Ordnung“. In seiner absoluten Gestalt ist der Ausnahmefall dann eingetreten, „wenn erst die Situation geschaffen werden muß, in der Rechtssätze gelten können“. Wichtig ist auch der Satz, daß die Souveränität „nicht ein Zwangs- oder Herrschafts-, sondern ein Entscheidungsmonopol“ ist. Soweit die rationalen Kennzeichen. Auf die irrationalen Beweggründe aber deutet Schmitt damit hin, daß, wie er sagt, gerade nur die Ausnahme, der extreme Fall interessiert; denn in der Ausnahme „durchbricht die Kraft des wirklichen Lebens die Kruste einer in Wiederholung erstarrten Mechanik. Umschreibend würde man sagen können: es gibt Gestaltungen der Geschichte, in denen das Leben so tödlich verstrickt und geknebelt ist, daß eine legale Lösung nicht mehr möglich erscheint. Der Lebensstrom kehrt dann in seiner ganzen Fülle zu seinem Ursprung zurück und erzwingt sich sein Recht nach höheren Gesetzen. Es gibt einen überlegenen Modus und Weg, eine ewige Richtlinie, nach denen das Leben auch in Zeiten, die es gefährden, auch gegen die staatlichen und legalen Approbationen, zu seinem Rechte gelangt. Es ist die gegebene historische Situation für das Hervortreten des Heiligen, oder um im Politi sehen zu bleiben, des homo a deo excitatus. Ein Wunder muß geschehen, und das Wunder wird wieder geglaubt.

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Aber Wunder und Politik — wie vertragen sie sich? Gibt es politische Heilige, homines a deo excitati, die merkantile und kriegerische Aktionen leiten? Vermag das Irrationale in direktem Hervortreten die Politik eines Landes zu leiten? Ist eine souveräne Diktatur innerhalb des Staates überhaupt möglich? Cromwell ist ohne Zweifel ein Usurpator, schon deshalb, weil er wütend gegen die Kirche auftrat. Gewiß, er berief sich auf irrationale Motive, er sah den Quell seiner Gewalt in Gott und machte seine Souveränität nicht vom Volke im Sinne der radikalen Demokraten seiner Zeit abhängig. Er läßt niemals einen Zweifel darüber, daß vor Gott jede weitere irdische Instanz relativ wird oder schwindet. Aber die physische Macht stand hinter ihm, während er sprach, und nicht das Wunder. Glückliche Handelsverträge begünstigten ihn, nicht Traumgesichte und Inspirationen göttlicher Art. Enfin, er ist ein Ketzer. Niemals wird er kanonisch werden, er war kein Souverän. Und so nötigt die Konsequenz zu der Aussage, daß Schmitt in diesem Buche noch an eine Souveränität außerhalb der Kirche glaubt, während man als römischer Katholik an dem Satze festhalten muß, daß innerhalb der Politik nur eine kommissarische Diktatur irrational zu begründen ist; dann nämlich, wenn eine irrationale Macht den Auftrag erteilt einem Instrumente, das mit rationalen Mitteln die höheren Absichten der auftraggebenden Macht in die Wege leitet. Der homo a deo excitatus oder der Heilige in der politischen Auffassung der puritanischen und deutschen Reformation ist ein Rebell, der nicht an den Friedensfürsten, sondern an den Kriegsgott glaubt und der seine politische Mission mit dem Wohlstände der Nation ausweist. Der Heilige und die Staatsgeschäfte schließen einander aus, solange nicht ein universaler Glaube herrscht. Das Irrationale kann niemals in direkten Bezug zum Staate treten. Das ist der Sinn der Kirche als Institution und der kommissarischen Diktatur. Der souveräne Diktator ist nur innerhalb der Kirche zu begründen.

X.

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Der Versuch einer analogen Anwendung der Antithese auf das Verhältnis von kommissarischer und souveräner Diktatur mußte mißlingen, solange Schmitt noch wie in „Diktatur“ an den übervernünftigen, ekstatischen Belang eines kirchenfeindlichen Individuums und an eine individuell begründete Souveränität überhaupt glaubte. In „Diktatur“ unterliegt Schmitt noch den Anschauungen der von ihm später so heftig bekämpften, materiellen Irrationalisien à la Sorel. Es verraten sich gewisse antimechanistische Instinkte, die auf den modernen Ausgangspunkt verweisen. Doch hindert dies nicht, daß der Gegensatz von kommissarischer und souveräner Diktatur besteht, wenn er auch, um konkret zu bleiben, nur auf das Verhältnis des päpstlichen Aktionskommissars zu seinem Auftraggeber angewandt werden kann. Und ebenso vermochte Schmitt überraschend neue Kennzeichen der Souveränität zu definieren, ohne daß er plausibel machen konnte, wie ein Hervortreten des homo a deo excitatus außerhalb der Kirche, oder gar, wie im Falle Cromwells, im heftigsten Widerspruche mit ihr, solle möglich sein, ohne in praxi zu einer Verwirrung aller Rechts- und Moralbegriffe zu führen.

Nun wird in der ein Jahr später erscheinenden „Politischen Theologie“ der Souveränitätsbegriff weiter verfolgt, und diese Schrift verlegt, wie der Titel schon sagt, den Souveränitätsbegriff ausschließlich in die Theologie. Daß die Souveränität kein „Zwangs- oder Herrschafts-, sondern ein Entscheidungsmonopol“ ist, garantiert diese Wendung und schließt alle ferneren Mißverständnisse aus.  Als Kennzeichen der Souveränität erscheint jetzt die schon erwähnte Befugnis, das geltende Gesetz aufzuheben. Diese Befugnis kann ihrem Sinne nach nur einer der Politik überlegenen geistigen Macht zustehen, die ein höheres als das politische Gesetz zur Geltung bringt. Wenn Schmitt sich auf Bodins „Vraies remarques de souveraineté“ (Kap. X des I. Buches der Republik) bezieht und es als Bodins Leistung und Erfolg bezeichnet, daß er die Dezision in den Souveränitätsbegriff hineingetragen hat, so erinnert man sich, daß Bodin eigentlich nur eine kommissarische Diktatur kannte (die die Souveränität des Auftraggebers voraussetzt), aber keine souveräne Diktatur. Eine souveräne Diktatur übte damals und übt auch heute noch de facto nur der Papst aus, dem sie von den Konzilien übertragen ist; wobei man streiten kann und lange gestritten hat, ob diese Diktatur zu Recht besteht, oder in welchem Sinne sie zu Recht besteht. Dies ist das Problem der kirchlichen Unionsbestrebungen.

In „Diktatur“ ist Schmitt sein Personalismus gefährlich geworden, ebenso wie de Maistre der Begriff des „legitimen Usurpators“ gefährlich wurde.  Aber die gewaltige begriffliche, die erschöpfende wissenschaftliche Leistung dieses Buches scheint ihm die Dinge in einem neuen, demütigeren Lichte zu zeigen. Er verbindet das Problem der Souveränität jetzt mit dem der Rechtsform überhaupt, und das schließt eine individuelle Lösung, wie sie das Diktaturbuch für möglich hielt, aus; es sei denn, daß das Individuum und die höchste, ideologische Instanz zusammentreffen, was man von Cromwell, Münzer, Mazzini und anderen individuellen Versuchen, eine souveräne Diktatur außerhalb der Kirche zu errichten, nicht behaupten kann.

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Der Begriff der Persönichkeit gewinnt in Schmitts Werk mit jeder neuen Schrift höhere Bedeutung. Ich wies bereits darauf hin, wie sehr bei diesem Ideologen das wissenschaftliche und das persönliche Problem verbunden sind. Wer seiner eigenen Person Dauer zu verleihen sucht, muß auf die Identität seiner Äußerungen bedacht sein. Würde und Wert der Person sind anders nicht zu behaupten. Trifft diese Überzeugung mit einem Hang zum Absoluten und Definitiven zusammen, so begegnet die religiöse Persönlichkeit, die ein “ewiges Leben“, die Unsterblichkeit, ein über den Tod und den Zufall erhabenes Sein erstrebt. Ich nannte diese Einstellung eschatologisch, kätholisch, und möchte, falls man hierüber weiteren Aufschluß sucht, auf ein Buch des Spaniers Miguel de Unamuno verweisen, das wenig bekannt ist. * Das Verhältnis der Person zur Wirklichkeit und zum Jenseits, oder nach Schmitt zum Staat und zur Rechtsform macht nahezu den Inhalt der „Politischen Theologie“ aus. Eine Diktatur ist ohne eine bestimmende Persönlichkeit nicht denkbar, eine Repräsentation von Würde und Wert ebensowenig. Wie es keine Form, ja nicht einmal eine Wirklichkeit ohne eine Entscheidung gibt, so wenig ist eine Entscheidung ohne eine Person, die entscheidet, möglich. Aus der absoluten juristischen Form ist nach Schmitt die Persönlichkeit nicht hinwegzudenken: „In der Eigenbedeutung des Subjekts liegt das Problem der juristischen Form.“

*„Le sentiment tragique de la vie“ (Paris 1917), chap. IV, L’essence du catholicisme.

Kapitel II der „Politischen Theologie“ setzt der Verfasser sich über das Formproblem mit der neueren deutschen Rechtsphilosophie auseinander. Ein energischer Personalismus verdeutlicht dann den Abstand, in dem sein System zu dieser unserer Zeit steht, deren anonyme, unpersönliche Physiognomie eine autonome Besinnung nahezu ausschließt. Kelsens Lehre, wonach der Staat die Rechtsordnung selbst ist, kann Schmitts theologischer Einsicht so wenig emsprechen, wie die Krabbes, wonach der abstrakte Staat selbst souverän ist.  „Das Rechtsinteresse ist nicht das höchste Interesse“, das der metaphysischen Person steht höher. Erich Kaufmanns „Kritik“ der neukantianischen Rechtsphilosophie“ (und ihrer sterilen Abstraktionen) erscheint als „die jeinzige Äußerung einer neuen, geistigen Intensität“. Kaufmann treibt nicht erkenntnistheoretische Spiegelfechterei, sondern Geschichtsphilosophie. Er folgt den gegebenen Fakten, statt Abstraktionen sich über den Kopf wachsen zu lassen. Er stellt den Staat, nicht das Recht in den Mittelpunkt kritischer Betrachtung. Der in Begriffsklitterungen befangene Neukantianismus vermag das anstürmende Leben nicht zu bändigen. Kaufmann warnt davor, den Rest von Irrationalität zu vergewaltigen, der sich rationaler Formulierung noch entzogen hält; doch irrational heißen hier wieder die Lebenskräfte ganz allgemein, nicht die Gründe der ratio. So endet auch Kaufmanns Kritik beim Problem der obersten Form, ohne daß deutlich würde, worin diese Form denn nun beschlossen läge.

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Schmitt hat seinem Vorgänger gegenüber den Vorteil seiner katholischen Schulung und seines leidenschaftlich ideologischen Temperaments. Die objektive, unpersönliche, abstrakte Auffassung der Form (Kelsen, Krabbe, Preuß), die eine anonyme, formalistische Autorität an den Anfang der Dinge setzt, diese Auffassung erfährt eine kräftige Abfuhr. Recht ist dort, wo entschieden wird; wo inappellativ entschieden wird, ist der Souverän, und wo die Entscheidungen des Souveräns hervortreten, ist der Ausnahmezustand. Das sind klare und höchst lebendige Definitionen, die beim stilistischen Rang des Autors nicht nur juristische, sondern allgemeine Bedeutung haben. Wenn es die besondere Aufgabe des Philosophen ist, Spannungen innerhalb der Denkwirtschaft seiner Zeit zu erzeugen, so ist hier eine Krisis in den Herrschaftsbegriffen heraufbeschworen, die man nicht unterschätzen darf; denn: „alle Tendenzen der modernen staatsrechtlichen Entwicklung gehen dahin, den Souverän in diesem (theologischen und ideologischen) Sinne zu beseitigen“.

XI.

Es fehlt aber noch das wesentlichste Element der Rechtsform, ihre universale Verbindlichkeit. Was Schmitts Rechtslehre zur politischen Theologie stempelt, ist die eigenartige Einführung und Anwendung einer von ihm meisterhaft gehandhabten Analogie zwischen politischer und theologischer Norm, zwischen Theologie und Jurisprudenz.  Bei seinen ideen-geschichtlichen Untersuchungen ergibt sich die merkwürdige Tatsache, daß die staatsrechtlichen Konstruktionen der Legislateure jeweils den metaphysischen Konstruktionen der Denker entsprechen. Dieses „Gesetz“, diese Analogie gewinnt in Schmitts Händen den “Wert einer unfehlbaren Methode, wo es gilt, den Sinn sowohl einer politischen Doktrin wie einer ihr übergeordneten metaphysischen Notion zu erschließen. Die Existenz solcher Analogie kannten schon Descartes und Leibniz. „Merito partitionis nostrae exemplum“, so äußerte sich der letztere, „a theologia ad jurisprudentiam transtulimus, quia mira est utriusque facultatis similitudo“. Bei Schmitt führt die Analogie, nachdem sie erst nur der historischen Erkenntnis diente, zuletzt zur Feststellung der Theologie als der obersten Form der Jurisprudenz, insofern deren Begriffe samt und sonders in der Theologie beschlossen sind und aus ihr hervorgehen. „Alle prägnanten Begriffe der modernen Staatslehre“, heißt es im III. Kapitel der „Politischen Theologie“, „sind säkularisierte theologische Begriffe. Nicht nur ihrer historischen Entwicklung nach, weil sie aus der Theologie auf die Staatslehre übertragen wurden, indem z. B. der allmächtige Gott zum omnipotenten Gesetzgeber wurde, sondern auch in ihrer systematischen Struktur, deren Erkenntnis notwendig ist für eine soziologische Betrachtung dieser Begriffe.“

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Was ist das: soziologische Betrachtung der Rechtsbegriffe? Es ist das Bestreben, die geschichtlichen Formen der Rechtsbegriffe zu ihrer Herkunft zurückzuverfolgen und daraus Schlüsse zu ziehen auf die absolute Rechtsform. Es ist der Versuch, von der geschichtlichen Wirksamkeit aus und nicht abstrakt, zum Absoluten zu gelangen. Insofern setzt eine Soziologie der Rechtsbegriffe eine „konsequente und radikale Ideologie“ voraus. Nur daß die Ideologie eben konkret eingesetzt wird und sich durch das geschichtliche Material hindurchzuarbeiten sucht; sie geht von den historischen Gestaltungen und Erscheinungsformen aus. Der Philosoph, der solche Soziologie betreibt, verdankt seine Resultate einer „radikalen Begrifflichkeit, das heißt einer bis zu Theologie und Metaphysik getriebenen Konsequenz“. Die erwähnte Analogie ist ein Werkzeug solcher soziologischer Betrachtung, und zwar ihr vornehmstes Werkzeug. Mit ihr durchdringt der Philosoph die ihm begegnenden Systeme, von ihr aus konstruiert und begreift er sie. Die Frage nach den Tatsachen und der Struktur eines Systems wird zuletzt immer zur Frage nach der bewußten oder unbewußten Theologie, die das System beherrscht. Erst wenn der Gott oder Götze gefunden ist, dem vertraut und geglaubt wird, gilt ein System, eine Zeit, für begriffen. Die Sprache Gottes, die Theologie, ist höchster Begriff, nicht nur der Jurisprudenz, sondern auch der Kunst, der Politik, der Person, ja der Zahl und der Zeit.

Neben der Antithese von ratio und irrational ist die juristisch-theologische Analogie das wesentlichste Strukturprinzip der Schmittschen Schriften. Genau besehen aber sind beide Prinzipien ein und dasselbe.  Denn die Theologie verhält sich zur Jurisprudenz — das meint auch die partitio nostra des Leibniz — wie das Irrationale höheren Sinnes sich zur ratio verhält. Auch in diesem Zusammenhange knüpft Schmitt an Resultate der „Politischen Romantik“ von 1919 wieder an. Dort hatte er die Analogie zum ersten Male erwähnt und verwertet. „Diktatur“ war ein Abweg, oder sie ist schon vor dem Romantikbuche entstanden. In „Diktatur“ stimmte die Antithese mit der Analogie nicht überein; das führte zu einer Verwirrung der Grundbegriffe. Die Einheit des Schmittschen Werkes beruht in der Erhellung der Vernunftbeziehungen zum Übervernünftigen als ihrem Formprinzip. Diese Beziehungen aber sind akkurat die Beziehungen der Jurisprudenz zur Theologie, und nicht wie in „Diktatur“ die Beziehungen der Jurisprudenz zur Willkür einer Usurpation.

Ich möchte nicht unterlassen, in aller Kürze einige Beispiele der Analogie anzuführen. In „Politische Romantik“ zeigt Schmitt, weshalb der typische Romantiker die Wirklichkeit nicht zu begreifen vermag.  Er ist dazu außerstande, weil er die höchste begriffliche Realität, diejenige Gottes, durch zwei Pseudo-Realitäten, Gemeinschaft und Geschichte, ersetzt sieht, die er als Autoritäten empfindet, ohne daß sie es seien. Der Romantiker, das Genie der Zeit, dessen Aufgabe es wäre, die Zeit zu begreifen und zu gestalten, sieht sich der völligen Unmöglichkeit gegenüber, dieser Aufgabe gerecht zu werden. Er ist zur Impotenz, zur endlosen Diskussion, zu einer haltlosen Rhetorik verurteilt. Er sucht seine Freiheit im skeptischen oder ironischen Konsentement, in wohlfeilen Sophismen. Er vermag das Problem weder zu entscheiden, noch zu realisieren, weil ihm der höchste Begriff, die Realität Gottes, zerstört ist. Darum aber vermag Schmitt seinerseits die Romantik in einer so eminenten Weise zu begreifen, weil ihre politische Situation ihn zu ihrer metaphysischen und theologischen Struktur führt, wo sich denn die Konflikte dieser Bewegung in universaler Vielfalt erschließen.

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Ein anderes Beispiel aus der „Diktatur“. Descartes Metaphysik lehrte, daß Gott nur eine volonté générale habe, und daß alles Partikuläre seinem Wesen fremd sei. Rousseaus Gesetzgebung fordert analog, daß das Individuum auf alle seine Sonderrechte zugunsten der volonté générale als omnipotentem staatlichem Faktor zu verzichten habe, um von der volonté générale seine Rechte als generelles Gesetz wiederzuerhalten. Der Begriff des Legislateur selbst ist bei Rousseau dergestalt definiert, daß seine Wirksamkeit etwa dem Anstoß jener okkasionellen Ursachen entspricht, die bei Malebranche in der metaphysischen Reihe als die lois générales von Gott in Bewegung gesetzt erscheinen. Aus den Naturgesetzen aber, wie Descartes, Malebranche und Leibniz sie entwickeln, sind dann bei Holbach bereits „Gesetze der wirtschaftlichen Entwicklung“ geworden, denen der Staat sich zu unterwerfen habe.

In Schmitts letzter Schrift „Römischer Katholizismus und Politische Form“ findet sich der abschließende Satz, daß ein mechanistisches Zeitalter sich das höchste Wesen überhaupt nur außerhalb der Dinge als allgemeinen Beweger, als Monteur und Installateur der kosmischen Maschine denken könne, und in derselben Schrift begegnet die wichtige Feststellung der Religion einer modernen europäischen Gesellschaft, die eine Religion der Privatsache und des Privateigentums genannt wird.

XII.

Es ist immer wieder überraschend, wie sehr bei Schmitt die typische Fragestellung des Thomismus nachwirkt oder wiederauflebt; jenes ganz zur Erfahrung geneigten mittelalterlichen Systems, das die Irrationalität der Dogmen verteidigte, indem es zu zeigen versuchte, daß die Übervernünftigkeit dieser Dogmen nicht eben widervernünftig, oder gar unvernünftig zu sein brauche, und das alle Kräfte der ancilla philosophia darauf verwandte, die Verbindungen von Übervernunft und Vernunft, von Theologie und Philosophie, von Heilig und Profan abzugrenzen.
— Auch in „Römischer Katholizismus und Politische Form“ steht das Problem der ratio im Mittelpunkte der Gestaltung, einer sehr kunstvollen Gestaltung, die so sehr gelungen ist, daß die wissenschaftliche Frage auch stilistisch ins theologische Geheimnis mündet. Schon der Titel zeigt das oben konstatierte Gegensatzpaar von Theologie und Politik; nur ist der Gegensatz jetzt in die absolute Sphäre gehoben. In dieser Sphäre wird aus der Theologie ein »Römischer Katholizismus« und aus der Politik die „Politische Form“. Um es vorwegzusagen: es ist auch der andere Gegensatz von Irrational 'und Rational, mit der radikalen Zuspitzung, daß beide Antithesenglieder jetzt in die Theologie verlegt sind: insofern nämlich dem „Römischen Katholizismus“ auch die rationale Formkraft der Politik gegenüber zuerteilt wird. Mit anderen Worten: die römische Kirche hütet die Irrationalität und gelangt bei der Erfassung und Normierung des materiellen Status zur Ausprägung der rationalen Formen.

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Ratio heißt im Lateinischen nicht nur Vernunft, sondern auch Rechenschaft, Aufschluß, Maß, Gesetz und Methode. Ratio ist allgemein genommen ein Sichverhalten einer Sache oder Person zu einer anderen, der Aufschluß über die Beschaffenheit eines Phänomens, und ebenso hat das Wort die Bedeutung von „Einrichtung“ überhaupt. Vernehmen kann die Vernunft schließlich nur, was ihr verkündet wird, und so könnte man sagen, daß die kirchliche ratio sich nach oben auf die Offenbarung und nach unten auf den Staat bezieht. Wie dem auch sei; die ratio setzt ihrem Wesen nach die repraesentatio voraus, als welche, um bei dieser grammatischen Pedanterie noch ein wenig zu verweilen, die Vergegenwärtigung, die bildliche Darstellung einer Sache bezeichnet und ihrer Natur gemäß Gegenstände unbildlicher, immaterieller, ideologischer, irrationaler Art umfaßt. Das sind die Grundbegriffe, um die der Lateiner Carl Schmitt seine Schrift gruppiert, und zwar läßt er sie seiner Antithese getreu vom Verhältnis der ratio zu repraesentatio handeln, ein scholastisches Thema, das hier im konkreten Gewände heutiger Prägung erscheint.

Daß die soziologische Konsequenz zum römischen Katholizismus führen mußte, kann bei dem retrospektiven Bestreben dieser Methode nicht überraschen.  Alle Begriffe der Legislative und Metaphysik, die im europäischen Geschichtsverlauf der letzten Jahrhunderte hervortraten und auf die Gestaltung der Gesellschaft Einfluß gewannen, gehen auf die mittelalterliche Suprematie der römischen Kirche und weiterhin darauf zurück, daß diese Kirche, wie Schmitt sagt, „im größten Stile die Trägerin juristischen Geistes und die wahre Erbin der römischen Jurisprudenz“ ist. Das Verhältnis ihrer überrationalen Einsichten zum Staat zu bestimmen, ist ihr spezifischer Beruf, seit die Nachfolger Petri das Brückenamt des akrömischen Pontifex maximus übernahmen. Nicht als ob es seitdem kein römisches Recht außerhalb der Kirche gebe: aber so gewiß der griechische Areopag die oberste Kult- und Rechtsbehörde zugleich war, so gewiß war es der altrömische Pontifex maximus, und ist es der christliche.

Die ratio ist die Brücke vom konkreten Gott zum konkreten Volk, .und nicht etwa, wie in den sogenannt rationalistischen Werken die Brücke von einer skeptischen und abstrakten Philosophie zu einer dämonischen Wirklichkeit.  Die ratio setzt den Glauben an Realität Gottes und eine Repräsentation, eine Vergegenwärtigung dieses Glaubens voraus. Der Rationalismus der Kirche beruht nach Schmitt „im Institutionellen“, in einer „spezifisch formalen Überlegenheit über die Materie des menschlichen Lebens“. Der katholischen Argumentation liegt eine „besondere, an der normativen Leitung des sozialen Lebens interessierte, mit spezifisch juristischer Logik demonstrierende Denkweise“ zugrunde, und diese formale Eigenart des römischen Katholizismus „beruht auf der strengen Durchführung des Prinzips der Repräsentation“. Der Papst ist nicht der oberste Prophet, sondern der Stellvertreter, der Vikar Christi; er repräsentiert die abwesende, ekstatische, irrationale Person Christi, repräsentiert die Gemeinschaft der (in der Ekstase abwesenden) Heiligen, den Leib Christi, die Kirche. „In solchen Distinktionen“ (nicht Prophet, sondern Stellvertreter), sagt Schmitt, »liegt die rationale Schöpferkraft der Kirche«. In der Repräsentation liegt ihr Wille zur Verantwortung, ihre publizistische Form, im Gegensätze zu all den Religionen, deren Überzeugung Privatsache ist.

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Im römischen Katholizismus sieht Schmitt die juristische, politische, ja die ideologische Form überhaupt und damit alle höheren Kategorien der europäischen Zivilisation garantiert. Die formalen Zusammenhänge sind aus dem Vorhergehenden ohne weiteres klar. Inhaltlich aber erklärt sich die Stellung, die Schmitt der römischen Kirche zuweist, aus ihrer Kraft zur Repräsentation. „Sie repräsentiert die civitas humana, repräsentiert in jedem Augenblick den historischen Zusammenhang mit dem historischen Augenblick der Menschwerdung und des Kreuzesopfers Christi, sie repräsentiert Christus selbst“, mit allen Attributen, so könnte man hinzufügen, die das Credo ihm gibt, worunter die juristischen Attribute einen entscheidenden Rang einnehmen. Denn nach dem Credo leidet Christus unter Pontius Pilatus, das heißt die irrationale Person leidet unter der Politik, und nach dem Credo kommt Christus zu richten die Lebendigen und die Toten: die irrationalia und die rationalia, wenn man mit Baco von Verulam unter den Lebendigen die Theologie und unter den Toten die Philosophie verstehen darf.

Es ist kein Zufall, wenn Schmitt gegen Sorel die lebendige Eschatologie einiger neueren Katholiken (Veuillot, Bloy, Cortes, Robert Hughes Benson) verteidigt. Er hätte an dieser Stelle vor allem auch auf die Heilig- und Seligsprechungen der letzten Jahrzehnte hinweisen können, in denen die von Sorel bestrittene „mythologische“ Vitalität der Kirche und ihr Gericht kanonisch zum Ausdruck kommen.  Die Eschatologie ist mit den Fragen der Repräsentation, wie Schmitt sie behandelt, aufs engste verbunden. Die repraesentatio entspringt dem Streben nach Dauer und Endgüliigkeit. Institutionen ist sie die Gegenwart über den Tod hinaus und in ihrer Spitze die Allgegenwart. Unamuno in seiner Philosophie des Irrationalen erklärt den (der Repräsentation zugrunde liegenden) „soif d'immortalité“ für die eigentlich christliche und katholische Entdeckung. „Quid ad aeternitatem? Voilà la question capitale. Specifiquement religieux dans le catholicisme c’est l’immortalisation et non la justification à la manière protestante.“ Die institutionelle Repräsentation ist die Vergegenwärtigung der Immortalität: der Dauer. Sie gibt dem römischen Katholizismus jenes „Pathos der Autorität“, das Schmitt als ihre politische Macht bezeichnet, jene Würde und Überlegenheit über den politischen und sozialen Zufall. Darum kann sie jederzeit zur Quelle neuen Rechts werden, weil jede neue politische Konstellation ihr Gesetz und ihr Maß nur vom Absoluten beziehen kann. Die Dauer, wc sie repräsentiert wird, entscheidet; denn (mit Unamuno zu sprechen) „qu’y a-t-il de plus utile. de plus souverainement utile, que d’avoir une âme destinee à ne jamais mourir?“ Und so ist in den repräsentativen Formen des römischen Katholizsmus auch jenes Pathos der Entscheidung enthalten, das Schmitt in früheren Schriften als „souveräne Diktatur“ bezeichnete. Diese Welt des Repräsentativen ist es, die der Kirche ihre Kraft zur dreifach großen Form gibt: „zur ästhetischen Form des Künstlerischen, zur juridischen Rechtsform und endlich zu dem ruhmvollen Glanz einer weltgeschichtlichen Machtform“.

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Jene Impulse aber, die den »antirömischen Affekt« beleben, enthüllen sich damit in ihrer Konsequenz als normfeindlich, als abhold der politischen Verantwortung wie der künstlerischen Gestalt.  Mit welchen Gründen immer sie die ratio der Kirche bestreiten, umgehen, oder in ein »höheres Dritte« aufzuheben versuchen, sie sind gegen die metaphysische Würde, gegen den Heroismus des Menschen gerichtet. Sie treiben zur Willkür, oder zu einer unkontrollierbaren Mystik, zum Vorbehalt eines privaten Gewissens, oder zur Verneinung der Autorität. Die Gegner mögen mit Rudolf Sohm in der Juristik der Kirche ihren eigentlichen Sündenfall sehen, oder mit Dostojewsky einen indischen Schauder vor Macht und Gesetz empfinden; sie mögen mit der Freimaurerei die übernatürliche Institution als inhuman befehden, oder mit Bakunin und Marx die Ideologie selbst beseitigen wollen; gemeinsam bleibt allen diesen Gegnern die Abneigung gegen die rationale Formkraft des Absoluten. Diese aber erweist nach Schmitt gerade darin ihre Humanität, daß sie nicht anders als in der Verwirklichung, in der Selbstdarstellung, die übervernünftigen Werte sichtbar machen und zur Geltung bringen kann. Alle jene Gegner arbeiten dem modernen norm- und formfeindlichen Verbrauchsstaat in die Hände, wie wenig sie eine so fatale Allianz suchen mögen und mit welchen Sophismen immer sie ihr zu entgehen bestrebt sind. Das ist dagegen die große Bedeutung der Kirche, daß sie zur Repräsentation auch diejenigen einlädt, an die sie sich wendet, sei es das einzelne Individuum, oder die formierte Gesamtheit der Individuen, der Staat.

Damit sind wir beim Ausgangspunkt wieder angelangt: beim Gegensätze des Ideologen zum modernen mechanisierten Konsum.  Der kapitalistische Industriestaat von heute wie der sozialistische von morgen, beide kennen und anerkennen weder Form noch Repräsentation; sie haben nicht einmal die Kraft zu einer eigenen Sprache. Sie sind auf Bedürfnissen aufgebaut, die identisch sind mit dem Nichts. Ihr fatalistisches Ziel ist ein sich selbst regierender, selbst regulierender Ablauf von Wirtschaftsprozessen. Mit einem Automaten aber ist keine persönliche, politische, ideologische, keine vernünftige Verbindung möglich. Solange sich dieser Staat mit erstaunlicher Inbrunst im Widervernünftigen aufhält, kann ihn eine Vermittlung übervernünftigen Werte kaum interessieren. Doch die Kirche kann warten. „Sub specie ihrer alles überlebenden Dauer wird sie die complexio alles Überlebenden sein.“

Fonti iconografiche e sonore:

1. Hugo Ball: Flight Out of Time
2. artesonoro. E’ possibile ascoltare il sonoro della celebre poesia di Hugo Balla “Karawane”.
3. Dada - The AntiWar Art Movement.
4. Hugo Ball. Studiò dal 1906 al 1910 germanistica, sociologia e filosofia in Munchen e Heidelberg. Scheda biografica del Projekt Gutenberg-DE.
5. Myspacemusic.