04 marzo 2017

Julius Evola lettore di Carl Schmitt: 1941. Per un vero diritto europeo.

Julius Evola, verso 1941
Vengono qui raccolti, in ordine cronologico, per utilità degli studiosi di Evola e degli studiosi di Schmitt tutti i luoghi in cui Julius Evola scrive su Carl Schmitt in appositi articoli o lo cita appena, sia in forma esplicita, sia in forma implicita, ove in quest’ultimo caso si sia abbastanza certi della citazione non dichiarata. Vengono ogni volta indicati i luoghi, e se del caso aggiunte annotazioni esplicative. Qui si tratta di un articolo di Evola apparso originariamente su Lo Stato, anno XII, n. 1, gennaio 1941, pp. 21-29. Si riferisce a un articolo di Carl Schmitt, Die Auflösung der europäischen Ordnung im “International Law”, in: Deutsche Rechtswissenschaft – Vierteljahresschrift der Akademie für Deutsches Recht, 1940, 5. Band, Heft 4, S. 267-78. L’articolo è acquisito tramite scanner dal volume antologico Julius Evola, Nazionalismo Germanesimo Nazismo, a cura di Renato del Ponte, Genova, I Dioscura / Casa del Libro Fratelli Melita, pp. 83-89.

PER UN VERO DIRITTO EUROPEO

Nella misura in cui oggi condurre a fondo la vicenda guerriera in cui ci troviamo impegnati è cosa tanto importante, quanto precisare le idee destinate a far da base all’ordine nuovo, che sarà conseguenza della vittoria delle potenze dell’Asse - in una tale congiuntura è di particolare importanza esaminare accuratamente tutto ciò che già si comincia a fare nel campo delle scienze giuridiche ai fini di una revisione delle vedute finora accettate dai popoli europei e di una precisazione di nuove prospettive.

 Jünger  e Schmitt nel 1943 a Parigi
Per questo crediamo non privo d'interesse riferire e commentare brevemente le idee che un giurista già ben noto ai lettori della nostra rivista, Carl Schmitt, ha esposto in un suo recente saggio uscito nella rivista «Deutsche Rechtswissenschaft» e dedicato ai processi che han provocato la dissoluzione dell’ordinamento giuridico europeo e alla costituzione della cosiddetta international law.

Dello Schmitt è conosciuta l'idea, coincidente senz'altro con la nostra,
che fino ad un periodo relativamente recente, ma purtuttavia, già dimenticato
dal mondo moderno con una soprendente rapidità, le norme che regolavano
concretamente i rapporti fra le nazioni avevano un carattere organico
e differenziato. Non esisteva in alcun modo un diritto astratto , impersonale,
universalistico . Nei tempi più lontani, in fondo, la storia del diritto si
identificò alla storia degli imperi, con il che già si presentava quella idea di
«grandi spazi », quali sfere d'iHFluenza non semplicemente nazionale e domini
organizzati da interessi comuni, che solo oggi, sotto la forza stessa
delle cose, comincia di nuovo ad attrarre le menti . Ma anche dopo il periodo
propriamente imperiale della storia del nostro continente, lo Schmitt
constata l'esigenza di un diritto che non era per nulla «internàzionale», ma
«diritto delle nazioni europee». Come egli giustamente rileva , parlar di diritto,
fino ad un periodo relativamente recente, significava lo stesso che
parlar di diritto europeo sic et simpliciter e questa espressione manteneva
una intima connessione nella civiltà dei popoli europei. Un tale stato di co

se si mantenne fin verso il 1890. Dal 1890 in poi si ha una nuova fase, che
porta con sé trasformazioni profonde e conseguenze, il carattere deleterio
delle quali doveva apparire sempre più chiaro, fino alla crisi che dette luogo
alla guerra attuale.
Lo Schmitt pone l'inizio del nuovo periodo verso il 1890, che è la data
nella quale Bismarck cessò di essere il cancelliere germanico; ciò, per il fatto
che egli crede che Bismarck sia stato colui che, nel congresso di Berlino
del 1878 e poi nella conferenza del Congo del 1885, si era dimostrato «l'ultimo
uomo di Stato che si era mantenuto fermo ad un diritto delle nazioni
ancora specificatamente europeo e condotto dalle grandi potenze
europee». Noi però qui non siamo interamente del parere dello Schmitt: il
quale, del resto, già da sé ricorda che appunto nel congresso di Berlino si
ebbe - sia pure con certe riserve - l'annessione della Turchia alla comunità
giuridica delle nazioni europee, cosa nuova che già aveva un suo significato
sintomatico, anche per il fatto, che ciò avvenne sotto la spinta di motivi
realistici di opportunità politica, che così si dimostrarono più forti di
qualsiasi considerazione d'ordine più alto, e con lesione del prestigio di una
grande potenza europea, come era allora la Russia imperiale. Né si deve dimenticare
che la detta ammissione fu concordata da Bismarck con l'ebreo
inglese Disraeli e non si può non avvertire un certo senso di disagio ricordando
il fatto, che questi due uomini politici a Berlino s'intesero perfettamente,
come risulta dall'espressione storica di Bismarck nei riguardi di Disraeli:
«Der alte Jude, dies ist der Mann» cioè: «Questo vecchio ebreo è
l'uomo della situazione». Accenniamo tutto questo, per rilevare che, di
contro all'opinione di molti, nei riguardi dell'azione svolta da Bismarck,
sia all'interno della Germania che in Europa, non tutte le cose sono «in ordine
»: e chi si desse la pena di sfogliare un'opera assai interessante e illuminatrice
per i retroscena della storia europea, che noi stessi abbiamo recentemente
tradotta (I l, potrebbe facilmente convincersene. Più che Bismarck, a
noi sembra che, se mai, Metternich sia stato l'ultimo «Europeo», vale a dire
l'ultimo uomo politico che seppe sentire la necessità di una solidarietà
delle nazioni europee non astratta, o dettata solo da ragioni di politica
«realistica» e da interessi materiali, ma rifacendosi anche a delle idee e alla
volontà di mantenere il migliore retaggio tradizionale dell'Europa.
Ma su ciò non è il caso di fermarsi ulteriormente. Come le cose pur

stiano, si può esser d'accordo con lo Schmitt nel constatare che proprio
nell'ultimo decennio dell'Ottocento la concezione del diritto subisce trasformazioni
profonde e decisive. l presupposti interni di una tale variazione
forse sarebbe stato bene approfondirli: a noi sembra che la valutazione
in parola non sarebbe stata possibile, qualora il diritto in Europa non si
fosse già materializzato e secolarizzato, cioè qualora nel problema della regolazione
dei rapporti fra le genti europee avessero ancora avuto un loro
peso delle considerazioni di carattere non soltanto politico, militare, economico.
Non bisogna infatti farsi troppe illusioni circa la vantata «civiltà
europea», che nel periodo del diritto non ancora universali stico e generalizzato
«legittimava», ' per così dire, questo stesso diritto di fronte agli Stati e
alle genti di altri continenti. In ciò si trattava, in realtà, ormai, solo di un
mito, nel quale l'ideologia illuministica e «progressistica» di sapore più o
meno massonico aveva una parte assai importante. Questa civiltà europea,
di cui ci si vantava come di un privilegio delle razze bianche e che si opponeva
ai popoli di altri continenti, non solo ai selvaggi e a razze veramente
inferiori, era assai più definita dalle conquiste tecniche e «sociali», dallo
scientismo e dal razionalismo che non da valori veramente tradizionali europei.
Già al congresso di Vienna la base religiosa di una intesa europea basata
sulla comune civiltà si era dimostrata quanto mai incerta. A Berlino,
nel 1878, fu senz'altro trascurata e si fece ormai soltanto della «politica».
Se, come rileva lo Schmitt, fino allora si ebbe un diritto ancora europeo,
ciò lo si dovette ali 'automatico sopravvivere di un certo stato di fatto: esistevano
cioè, di fatto, dei rapporti concreti, in buona misura djnastici e tradizionali,
fra le grandi potenze europee, senza però che ne sopravvivessero
le originarie premesse superpolitiche. Finché questa sopravvivenza mantenne
qualche possibilità vitale, si ebbe ancora un diritto europeo; oltre un certo
limite, doveva però fatalmente sopravvenire la dissoluzione, perché era
ormai paralizzato il contatto con ogni superiore punto di riferimento e perché,
d'altro lato, in tutti gli Stati europei si facevano largo le «idee nuove»
con la corrispondente concezione razionalistica, democratica e antitradizionale
della civiltà.
Ed è così che si giunge, con un rapido processo, alla costituzione di un
tipo inedito e paradossale di diritto, il quale pertanto fino a ieri ha preteso
di esser il diritto per eccellenza, la vera base per un ordinamento morale
delle genti . Come dice lo Schmitt, si tratta «dell'estensione del diritto delle
genti europee, del droit public de l'Europe, ad un diritto generale, internazionale,
cosmopolita, comprendente tutti i popoli, tutte le razze e tutti i
continenti. Quel che alcune nazioni europee avevano sviluppato nel XVIII
e XIX secolo sulla base di una stretta parentela e come esponenti di una

stessa famiglia europea, in forme di un certo ordinamento concreto, divenne
improvvisamente un diritto mondiale, che avrebbe dovuto valere indiscriminatamente
per cinquanta o sessanta Stati eterogenei. È un processo
sorprendente. Ed è anche sorprendente là rapidità con la quale questa generalizzazione
si realizzò verso il 1890 attraverso una serie di fatti compiuti.
Ma ancor più sorprendente è l'attitudine irresponsabile che la scienza del
diritto delle genti assunse di fronte a questo processo, sì da finire in un universalismo
astratto, quasi come se non si fosse trattato di un mutamento
essenziale e fondamentale, ma solo di un processo di estensione quantitativa
».
Qui, non seguiremo lo Schmitt nelle individuazioni delle tappe più caratteristiche
di questo processo. Vogliamo solo ricordare, con lui, la parte
essenziale che in esso ebbe l'ideologia anglosassone, sia inglese, sia americana.
Proprio dai giuristi di tali razze venne l'espressione Internationallaw
a designare il nuovo diritto. Nei trattati più antichi si parla di «diritto internazionale
». Si noti, qui, che ancor oggi in vari rami del nostro insegnamento
questa designazione è corrente, mentre l'espressione tedesca corrispondente
è Voe/kerrecht, da tradursi letteralmente con «diritto dei popoli» e
«delle genti» - termine, dunque, che non richiama necessariamente alla
mente le promesse «universalistiche» e livellatrici proprie ali 'anzidetta concezione
della internationa//aw. Questa legge - nota lo Schmitt - non si
riferiva più a nessun «sistema» di Stati: il suo presupposto era piuttosto un
insieme disordinato di unità politiche eterogenee, prive di relazioni spaziali
ed etniche, gratificate di uno stesso tipo di sovranità: un vero atomismo,
che avrebbe dovuto esser tenuto insieme da un meccanismo di «norme»
astratte, di regole basate su casi precedenziali più o meno riconosciuti.
Parallelamente a tale trasformazione si determina un doppio dualismo.
In primo luogo si ha, secondo lo Schmitt, il dualismo fra il diritto che
vige ali 'interno di uno Stato e quello che vale per i rapporti fra Stato e Stato.
È un nuovo sintomo della inorganicità nell'epoca nuova. L'analisi che,
nel riguardo, compie il nostro autore, meriterebbe delle considerazioni a
parte in un dominio tecnico. Lo Schmitt considera come una delle cause
principali di detto dualismo la cosiddetta Staatsbezegenheit: con tale parola
egli intende più o meno il centralismo statale attuato mediante una forte
«positivizzazione» del diritto. Quanto più il diritto, negli Stati, si fa «positivo
» e si definisce in un corpo rigido di leggi applicabili rigorosamente ed
esattamente appunto sulla base della pura autorità statale, tanto più il
mondo di questo diritto interno si scinde dai principi generali del diritto
«internazionale».
Ma qui agisce, simultaneamente, un secondo dualismo, quello fra

l'elemento propriamente politico e l'elemento giuridico. Tale dualismo o,
almeno, tale scissione - nota lo Schmitt - in sé stessa è di antica data, ma
nell'epoca, di cui qui si tratta, diviene la base precipua del nuovo diritto
delle genti. «La struttura ideale di esso non fu più determinata dall'idea di
certi diritti fondamentali dei popoli e degli Stati, nemmeno dal principio
più o meno tautologico paeta sunt servanda, ma proprio da tale esclusione
di tutto quel che è politico da parte di una scienza che, come quella giuridica,
in sé è invece squisitamente politica».
Così tutta una serie di trattatisti si sono affaccendati per assicurare la
«purità» o «neutralità» del diritto dei popoli nei termini di un formalismo
normativistico. Sono sforzi che tuttavia hanno avuto un esito infelice. Nessuno
- nota giustamente lo Schmitt - è giunto a definire rigorosamente
queste due nuove, ben distinte quantità: «politico» e «giuridico» . Chi è voluto
andare a fondo, è sboccato fatalmente in un velleitarismo decisioni stico.
Così l'uno ci dirà che a decidere quel che sia l'elemento politico e il punto,
in cui esso cominci, sta unicamente il volere di ogni Stato interessato.
Passando al problema della guerra, si verrà allo stesso risultato: quando è
che una azione militare armata (rappresaglia, blocco, ecc.) cessi di rientrare
nello stato di pace e dia luogo alla guerra, ciò vien deciso solo dal volere,
dall'animus be//igerandi, di ogni Stato interessato. Né sono mancati autori,
i quali hanno adottato lo stesso criterio irrazionalistico perfino nei riguardi
del riconoscimento della qualità di «soggetto del diritto internazionale»: a
determinare tale qualità - essi dicono - alla fine, sta il «volere» dello
stesso diritto internazionale.
Si assiste così ad un curioso rovesciamento: per assicurare la «purità»
di un diritto astratto e formalistico ci si vede costretti ad una professione irrazionalistica
di fede. Forse lo Schmitt avrebbe potuto dar maggiore rilievo
a questo punto associandolo a quanto egli, in altri suoi scritti, ebbe a dire
nei riguardi di ciò che la facciata «neutra» della internationa/ /aw in realtà
nascondeva. È infatti ormai ben noto che, lungi dall'esser «neutro», il «diritto
internazionale» dell'età più recente è stato il docile strumento di una
politica controllata dalle nazioni democratiche, e soprattutto dall'Inghilterra
e dalla Francia. Passando di là dal campo puramente scientifico, non
ha dunque del tutto ragione lo Schmitt, quando dice che al diritto internazionalizzato
mancò la base di una qualsiasi situazione reale e concreta degli
Stati: questa base, di là dalle finzioni giuridiche, in realtà vi fu ed è stata
appunto un fatto a suo modo «imperialistico» delle potenze atlantiche,
cioè delle massime esponenti della democrazia europea. Peraltro, è evidente
che questo stesso fatto determinò il conflitto mondiale 1914-1918 e il
conseguente sistema dei trattati di pace. Non solo al presunto diritto «posi

tivo» normativistico non fu estraneo, dunque, un elemento politico, ma
questo elemento si potenziò perfino con una concezione specifica della vera
«civiltà», che si doveva far trionfare con le armi e consolidare col diritto internazionale
ginevrino, portando innanzi le «conquiste» della Rivoluzione
francese e scalzando quei residui di un mondo «oscurantistico» e «reazionario
» che sarebbero stati gli Imperi centrali.
Restando sul terreno strettamente giuridico, lo Schmitt svolge nel suo
interessante saggio varie considerazioni per dimostrare, che gli stessi più recenti
tentativi di codificazione del normativismo in fatto di diritto internazionale
hanno dimostrato la quantità degli ordinamenti concreti e delle
congiunture positive che ad ogni passo si dovevano presupporre e che sfuggivano
alle generalizzazioni universalistiche. Nell'un modo o nell'altro si
ha la sensazione precisa, che il periodo della internationa/ /aw è ormai chiuso
e che si debbono ben ordinare le premesse per un nuovo stadio nello sviluppo
del diritto delle genti. Col definitivo crollo dei nostri avversari si avrà
altresì la definitiva liquidazione di forme giuridiche, l'interna contraddizione
e il carattere esiziale delle quali sono ormai palesi ad ognuno.
Parlando della scissione fra l'elemento politico e quello giuridico, lo
Schmitt nota che là dove uno Stato sia potentemente organizzato, esso può
anche tollerarla e volgerla a proprio vantaggio, perché la sua autorità e il
potere che in esso ha l'esecutivo bastano a prevenire qualsiasi svolta pericolosa:
nel «positivismo» del diritto interno ad uno Stato la «spoliticizzazione
» non andando, del resto, oltre un certo limite. Ma in sede internazionale
le cose non stanno in egual modo e la scissione già accennata ha ben diverse
conseguenze. Non si può certo mantenere la premessa «internazionalistica
», cioè quella di un diritto che abbracci le relazioni di ogni
sorta di popoli della terra, e in pari tempo desiderare un ordinamento sia
pure approssimativamente concreto degli Stati. Sia una articolazione, sia la
posizione di una autorità politica, la quale nei riguardi internazionali sia
garante del diritto allo stesso titolo che all'interno di un dato Stato, ci appaiono
delle condizioni indispensabili.
Ma per tal via si viene facilmente alla teoria dei «grandi spazi» e dei
«conglomerati imperiali», che su queste pagine è stata già ripetuta mente
trattata e che fin d'ora si può considerare decisiva per il nuovo ordine europeo,
sia per quel che riguarda il suo aspetto giuridico che per quello culturale
ed economico (2). E in questo nuovo sistema articolato si potrebbe rea-
2) -
lizzare anche una esigenza di coerenza, a superare l'altro dualismo segnalato
dallo Schmitt, vale a dire quello fra la forma del diritto interno di uno
Stato e la forma del diritto che deve invece definire e regolare le relazioni
fra Stati diversi . Negli ultimi anni sono apparse ben chiare le assurdità alle
quali un tale dualismo dovette dar luogo, assurdità, che la finzione formalistica
e positivistica del diritto internazionale - e propriamente, ora, del
diritto ginevrino - non ha potuto mascherare. Norme, le premesse
democratico-egualitarie delle quali erano note a tutti, pretendevano di valere
sia per gli Stati, che avevano fatto proprie tali premesse nel diritto valido
all'interno di essi, sia per gli Stati di tipo fascista, che tali premesse avevano
recisamente negato e che si erano costruiti sulla base di idee affatto diverse.
Nella nuova Europa è da attendersi che questa inconseguenza venga
meno e che anche a tale riguardo si venga a forme veramente organiche, a
principi che, validi su di un piano, in formazioni diverse continuino ad esserlo
anche su altri piani. E per quel che riguarda il diritto dei popoli ripresi
nello «spazio» delle forze dell' Asse, è evidente che tale principio non potrà
essere che quello della gerarchia. Come all'interno di ogni Stato o unità politica
particolare vi sarà una graduazione gerarchica di funzioni, non un
ammasso di «individui» regolati da norme astratte, così anche alla base del
diritto proprio al sistema compreso nel nostro «spazio» starà l'idea della
diversità, della relativa indipendenza, della gradualità e della gerarchizzazione.
(
tivo» normativistico non fu estraneo, dunque, un elemento politico, ma
questo elemento si potenziò perfino con una concezione specifica della vera
«civiltà», che si doveva far trionfare con le armi e consolidare col diritto internazionale
ginevrino, portando innanzi le «conquiste» della Rivoluzione
francese e scalzando quei residui di un mondo «oscurantistico» e «reazionario
» che sarebbero stati gli Imperi centrali.
Restando sul terreno strettamente giuridico, lo Schmitt svolge nel suo
interessante saggio varie considerazioni per dimostrare, che gli stessi più recenti
tentativi di codificazione del normativismo in fatto di diritto internazionale
hanno dimostrato la quantità degli ordinamenti concreti e delle
congiunture positive che ad ogni passo si dovevano presupporre e che sfuggivano
alle generalizzazioni universalistiche. Nell'un modo o nell'altro si
ha la sensazione precisa, che il periodo della internationa/ /aw è ormai chiuso
e che si debbono ben ordinare le premesse per un nuovo stadio nello sviluppo
del diritto delle genti. Col definitivo crollo dei nostri avversari si avrà
altresì la definitiva liquidazione di forme giuridiche, l'interna contraddizione
e il carattere esiziale delle quali sono ormai palesi ad ognuno.
Parlando della scissione fra l'elemento politico e quello giuridico, lo
Schmitt nota che là dove uno Stato sia potentemente organizzato, esso può
anche tollerarla e volgerla a proprio vantaggio, perché la sua autorità e il
potere che in esso ha l'esecutivo bastano a prevenire qualsiasi svolta pericolosa:
nel «positivismo» del diritto interno ad uno Stato la «spoliticizzazione
» non andando, del resto, oltre un certo limite. Ma in sede internazionale
le cose non stanno in egual modo e la scissione già accennata ha ben diverse
conseguenze. Non si può certo mantenere la premessa «internazionalistica
», cioè quella di un diritto che abbracci le relazioni di ogni
sorta di popoli della terra, e in pari tempo desiderare un ordinamento sia
pure approssimativamente concreto degli Stati. Sia una articolazione, sia la
posizione di una autorità politica, la quale nei riguardi internazionali sia
garante del diritto allo stesso titolo che all'interno di un dato Stato, ci appaiono
delle condizioni indispensabili.
Ma per tal via si viene facilmente alla teoria dei «grandi spazi» e dei
«conglomerati imperiali», che su queste pagine è stata già ripetuta mente
trattata e che fin d'ora si può considerare decisiva per il nuovo ordine europeo,
sia per quel che riguarda il suo aspetto giuridico che per quello culturale
ed economico (2). E in questo nuovo sistema articolato si potrebbe rea-

lizzare anche una esigenza di coerenza, a superare l'altro dualismo segnalato
dallo Schmitt, vale a dire quello fra la forma del diritto interno di uno
Stato e la forma del diritto che deve invece definire e regolare le relazioni
fra Stati diversi . Negli ultimi anni sono apparse ben chiare le assurdità alle
quali un tale dualismo dovette dar luogo, assurdità, che la finzione formalistica
e positivistica del diritto internazionale - e propriamente, ora, del
diritto ginevrino - non ha potuto mascherare. Norme, le premesse
democratico-egualitarie delle quali erano note a tutti, pretendevano di valere
sia per gli Stati, che avevano fatto proprie tali premesse nel diritto valido
all'interno di essi, sia per gli Stati di tipo fascista, che tali premesse avevano
recisamente negato e che si erano costruiti sulla base di idee affatto diverse.
Nella nuova Europa è da attendersi che questa inconseguenza venga
meno e che anche a tale riguardo si venga a forme veramente organiche, a
principi che, validi su di un piano, in formazioni diverse continuino ad esserlo
anche su altri piani. E per quel che riguarda il diritto dei popoli ripresi
nello «spazio» delle forze dell' Asse, è evidente che tale principio non potrà
essere che quello della gerarchia. Come all'interno di ogni Stato o unità politica
particolare vi sarà una graduazione gerarchica di funzioni, non un
ammasso di «individui» regolati da norme astratte, così anche alla base del
diritto proprio al sistema compreso nel nostro «spazio» starà l'idea della
diversità, della relativa indipendenza, della gradualità e della gerarchizzazione.


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