Pag. 50
TESTO TEDESCO
einen sehr auffälligen Verzicht auf die rein historische Kontemplation, die sonst gerade die Stärke und den Reichtum des Buches ausmacht.
Das “allgemeine Moralgebot” und das Völkerrecht, dessen Normen die Staatsräson unterworfen werden soll, sind nun leider keine unproblematischen Größen, die am Ende eines von solchem historischem Wissen erfüllten Werkes als Schluß erscheinen könnten. Obwohl der Verfasser den “verhüllten und schwebenden Dualismus” bei Ranke ablehnt, weil er “nicht die letzte mögliche Lösung des Problems bedeuten konnte” (S. 487), und obwohl er sich mit persönlicher Entschiedenheit zum allgemeinen Moralgebot bekennt, ergibt sich aus dem Werk keine Entscheidung. Das Problem liegt nämlich gar nicht in der inhaltlichen Normativität eines Moral- oder Rechtsgebotes, sondern in der Frage: Wer entscheidet? Die große staatsphilosophische Literatur des 17. Jahrhunderts, insbesondere Hobbes und Pufendorff, haben dieses quis judicabit? immer betont. Meinecke spricht wohl davon, daß es über den Staaten keinen Richter gibt (S. 505, vgl. auch S. 371, 262), aber das Problem als solches ignoriert er, vielleicht aus Antipathie gegen alles, was an etwas Juristisches erinnert. In der Sache läßt es sich nicht ignorieren. Natürlich wollen alle nur Recht, Moral, Ethik und Frieden; keiner will Unrecht tun; aber die in concreto allein interessante Frage ist immer, wer im konkreten Fall darüber entscheidet, was rechtens ist; worin der Friede besteht; was eine Störung oder Gefährdung des Friedens ist, mit welchen Mitteln sie beseitigt wird, wann eine Situation normal und “befriedet” ist usw. Dieses quis judicabit zeigt, daß innerhalb des Rechts und des allgemeinen Moralgebots wiederum ein Dualismus steckt, der diesen Begriffen die Fähigkeit nimmt, als einfache Gegensätze der “Macht” entgegenzutreten und zu ihr in einer Pendelschwingung sich zu bewegen. Das Recht, insbesondere das Völkerrecht, ist nämlich entweder einfach Legitimität des status quo und sanktioniert den bestehenden Besitzstand; dann dient es der Macht der Besitzenden. Oder es begründet Ansprüche der Nichtbesitzenden und erscheint dann als ruhestörendes, revolutionäres Prinzip. Dieses Problem der Legitimität des status quo und der normalen Situation, das ich öfters, zuletzt in meiner Schrift über “Die Kernfrage des Völkerbundes” behandelt habe, sei hier nur angedeutet. Es muß den Aspekt des grundlegenden Dualismus von Kratos und Ethos völlig ändern.
Ist so das allgemeine Moralgebot in sich nicht ohne weiteres überzeugend, so hat auch die Sanktionierung, die es bei Meinecke erhält, etwas Unentschiedenes. Ein aus Gründen der Machtpolitik vorgenommener Verstoß gegen dieses Gebot wird als “tragische” Schuld angesehen. Das mag sie sein; aber das ist keine Sanktion, sondern ein Übergang ins Ästhetische*. “Tragisch” ist keine Kategorie, die, wenn man einmal ein moralisches Gebot ernst nimmt, die letzte Antwort auf einen Konflikt geben könnte*. Das Wort ist höchstens ein Ausdruck der inneren Problematik dieses moralischen Gebotes selbst, eine Umschreibung tiefen Bedauerns und der Erschütterung, die aus der historischen Einsicht in die Ohnmacht des Gebotes oder in die Unvermeidlichkeit der Durchbrechung entsteht, aber es kann nicht der
TRADUZIONE ITALIANA
una rinuncia assai vistosa alla contemplazione puramente storica, che peraltro costituisce la forza e la ricchezza del libro.
Il “comando morale universale” e il diritto internazionale, alle cui norme deve sottomettersi la ragion di Stato, non sono purtroppo grandezze non-problematiche, che possano apparire come conclusione al termine di un’opera piena di un siffatto sapere storico. Benché l’autore rifiuti il “dualismo velato ed incerto” in Ranke, perché « non può significare l’ultima possibile soluzione del problema » (p. 487), e benché aderisca con personale risolutezza al comando morale universale, nessuna decisione risulta dall’opera. Il problema, cioè, non si trova affatto nella normatività contenutistica di un comando morale o giuridico, ma nella domanda: chi decide? La grande letteratura di filosofia dello Stato del XVII secolo, in particolare Hobbes e Pufendorff, ha sempre accentuato questo quis judicabit? È vero che Meinecke parla del fatto che non ci sono giudici al di sopra degli Stati (p. 505, cfr. anche p. 371, 262), ma egli ignora il problema in quanto tale, forse per antipatia contro tutto ciò che ricorda alcunché di giuridico. Di fatto non lo si può ignorare. Naturalmente tutti vogliono il diritto, la morale, l’etica e la pace; nessuno vuol fare del torto; ma la sola domanda in concreto interessante è sempre chi decide nel caso concreto su ciò che è giusto; in che cosa consista la pace; cosa è un disturbo o una minaccia della pace, con quali mezzi viene eliminato, quando una situazione è normale e “pacificata”, ecc. Questo quis judicabit mostra come all’interno del diritto e del comando morale universale si annida di nuovo un dualismo, che toglie a questi concetti la capacità di opporsi come semplici contrapposizioni al potere e di muoversi rispetto ad esso in un’oscillazione del pendolo. Il diritto, specialmente il diritto internazionale, è perciò semplicemente legittimità dello status quo e sanziona lo stato esistente del possesso; serve quindi al potere dei possidenti. Oppure fonda le pretese dei non possidenti e appare quindi come un principio rivoluzionario che disturba la quiete. Questo problema della legittimità dello status quo e della situazione normale, che io ho trattato spesso, in ultimo nel mio scritto sulla “Questione centrale della Società delle Nazioni”, sia qui soltanto accennato. Deve cambiare completamente l’aspetto del fondamentale dualismo di kratos ed ethos.
Se il comando morale universale in sé non è senz’altro convincente, allora anche l’approvazione, che esso riceve in Meinecke, ha qualcosa di indeciso. Una violazione di questo comando fatta per motivi di politica di potenza è vista come colpa “tragica”. Può essere; ma questa non è una sanzione, bensì un passaggio all’estetico . “Tragico” non è una categoria, che – se per una volta si prende sul serio un comando morale – possa dare l’ultima risposta ad un conflitto. La parola è tutt’al più un’espressione della problematica interna di questo stesso comando morale, una perifrasi del profondo rincrescimento e dello sgomento, che nasce dalla vista dell’onnipotenza del comando o dell’inevitabilità della violazione, ma non può essere la conclusione convincente di un’opera…
ANNOTAZIONI
(si guardi il testo tedesco)Al momento non riesco purtroppo ad ottenere una migliore visualizzazione sulla rete. Saranno fatto più tentativi. Ciò mi è necessario perché spero di ottenere in questo modo l’aiuto richiesto da chi può ben vedere. Il corsivo corrisponde alle parti sottolineate, in tutto o in parte, da Schmitt nell’esemplare conservato nel Nachlass. Queste sottolineature potrebbero ben essere un’intenzione di Schmitt di procedere ad una evidenziazione del testo tanto più che in un caso (quis judicabit) il corsivo esiste già nel testo stampato. Evidente sempre l’inserzione di una nota a margine nel punto qui segnalato segnalato con un aterisco*. Più convincente come punto di inserzione della nota il primo asterisco (Ästetische). Meno chiare le intenzioni di Schmitt dopo la parola könnte*, due righe più sotto. Sembra che si tratti di una sola nota aggiunta consistente in tre righe manoscritte, di cui oltre al nome Kierkegaard non riesco a capire nulla. Confesso pubblicamente i miei limiti. I segni sul bordo sinistro della pagina non mi sono chiari nella loro estrema brevità.